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Channel: Aggressione a Gaza – Pagina 46 – eurasia-rivista.org

VIAGGIO IN COREA DEL NORD: L’ALTRO PUNTO DI VISTA

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Rappresentata come il Paese più isolato e impenetrabile del mondo, la Corea del Nord fa parlare di sé solo raramente. Titoli sensazionalistici e giudizi senza appello. Poi i riflettori si spengono e la Corea del Nord sprofonda di nuovo nel buio.

In questo testo i pregiudizi vengono accantonati e si dà voce all’altra parte. Come si mostra “Il Regno Eremita” al visitatore occidentale? Come il cittadino nordcoreano racconta la storia del suo Paese? Perché a Pyongyang è sparito il centro storico? Come è concepito il sogno della riunificazione? Qual è l’origine del culto dello Stato? Molte domande rimangono aperte. Si aprono possibili campi d’indagine. Tanti spunti di riflessione che gettano una nuova luce anche sulla nostra cultura.

 

 

Premessa

Uno dei paesi più impenetrabili del mondo, Il Regno Eremita, Il più grande enigma dell’Asia. Definizioni che evocano un luogo misterioso, inaccessibile, quasi sconosciuto. Eppure è difficile trovare un altro luogo sul quale siano state fatte affermazioni più perentorie e sibilline, più granitiche e definitive. Testi che sembrano non conoscere il dubbio, testi sui quali aleggia l’ombra della propaganda.

La Corea del Nord suscita domande. E proprio qui sta il suo fascino. Viaggiare in Corea del Nord significa attraversare un Paese-Fortezza, un Paese pervaso da un culto che si fonda su un mito, un Paese che ha intrapreso un originale esperimento. Ma se lo faremo con occhi nuovi e con la mente sgombra dai pregiudizi, e se saremo disposti anche ad ascoltare le ragioni degli altri, allora il nostro viaggio potrebbe rivelarsi sorprendente e potrebbe portarci fino a vedere noi stessi riflessi in uno specchio. E le domande che ci porremo, se pur resteranno in gran parte senza risposta, lasciando avvolto nel suo alone di mistero quel mondo che invano cerchiamo di scoprire, non mancheranno di gettare nuova luce sulla nostra cultura e sul nostro rapporto con gli altri.

 

 

Varcando la soglia: nel Regno Eremita

Dall’alto, adagiata nella grande piana verde, Pyongyang mi appare diversa da ogni altro luogo al mondo. Risaie e piantagioni di mais si estendono fino a pochi metri dalla pista d’atterraggio, sotto un cielo appena velato dalla tenue foschia, mentre qualche contadino si aggira per la campagna umida e rigogliosa.

Già all’arrivo all’aeroporto ho l’impressione di non essere in uno dei tanti “non luoghi” del mondo, luccicanti di lussuosi negozi, stessi marchi, stessi prodotti, stessi anonimi, asettici luoghi, ove a volte dimentico dove sono: Roma? Mosca? Pechino? No, qui sono a Pyongyang.

L’aeroporto internazionale Sunan ci accoglie in un grande salone grigio, semplice, essenziale, le pareti di un tenue e riposante verdino. Le formalità sono abbastanza veloci, i telefoni vengono rapidamente controllati e restituiti. La delegazione di ospiti stranieri è già attesa e non c’è bisogno di tanti controlli: saremo sempre seguiti da due guide e da un autista, che saranno i nostri angeli custodi per tutta la durata della visita.

Mentre ci dirigiamo verso l’hotel e la guida ci dà le prime informazioni introduttive sul Paese, la mia curiosità è tutta rivolta verso l’esterno, a controllare quanto, a un primo impatto, le descrizioni lette corrispondano al mondo realmente osservato. Già il discreto traffico di macchine, le molte persone per le strade e l’atmosfera serena sembrano smentire il clima cupo e triste dei racconti occidentali.

Mi è capitato spesso di leggere come Pyongyang sia una città surreale, artificiale, una specie di enorme palcoscenico senza attori.

La città appare ultramoderna e del suo volto antico non si vede traccia alcuna. Una scelta ideologica? O non sarà la folle idea dell’uomo nuovo che abbia portato ad eliminare il ricordo del passato? O il parto di un visionario progetto futurista? Sono le prime di una lunga serie di domande che mi porrò nel corso della mia visita in Corea del Nord. Provo a chiedere. No. Non è nulla di ciò che ho pensato. Ѐ la guerra. Soltanto la guerra. Pyongyang fu distrutta dalla guerra, l’ultima, la più disastrosa di una lunga serie di guerre. E non fu la memoria dell’antica città, peraltro mai esistita in Occidente, ma gli effetti di quella guerra tremenda e dimenticata ad essere rimossi dalla memoria breve dell’uomo occidentale.

La mia curiosità si fa più viva. Come i Nordcoreani raccontano la loro storia? Così acquisto un libro che presenta la Corea del Nord agli stranieri e cerco la storia di Pyongyang.

Migliaia di anni fa, uno dei primi Stati d’Oriente, quello del re Tangun, aveva stabilito proprio qui la sua capitale. Le genti di quel regno leggendario affermavano di discendere dal sole. Tanti secoli passarono, venne il periodo chiamato dei Tre Regni e Pyongyang divenne la capitale dello Stato di Koguryo. All’inizio del decimo secolo, Koryo fu il primo Stato unitario della penisola coreana e portò la sua capitale a Kaesong. Pyongyang continuò a mantenere un ruolo importante nella vita politica, economica e culturale del paese. L’età moderna fu segnata da una serie di invasioni, fino all’occupazione giapponese dell’inizio del secolo scorso. Infine venne la guerra statunitense, la più disastrosa. I massicci bombardamenti ridussero la città in cenere. Dell’antico centro e delle sue strette vie, dei suoi templi e padiglioni, delle sue fortezze e delle sue porte non restava più nulla. Tutto era da rifare. Ma il popolo coreano, con grande coraggio e determinazione, si mise al lavoro e riedificò dalle fondamenta la sua capitale. E lo fece secondo un progetto grandioso.

Altissimi edifici in pietra, in vetro e in cemento si levarono al cielo, giganteschi monumenti di marmo ornarono piazze vastissime, larghi viali vennero bordati d’alberi, enormi spazi furono trasformati in parchi e giardini perfettamente curati.

Come fu possibile un lavoro così straordinario? Penso che la risposta stia nella forte coesione sociale e nazionale del popolo coreano, che si fonda sull’esistenza  di un antico spirito comunitario. Quell’antico spirito fu mosso da un fulcro moderno, e la figura del Grande Leader divenne il cuore odierno di un sentimento antico.

Ѐ facile trovare, per tutto il Paese, libri che raccolgono aneddoti sui leader coreani. Sono tradotti nelle principali lingue europee: inglese, francese, spagnolo, russo. Sono storie che parlano il linguaggio del mito e che, soprattutto nel caso del Presidente Kim Il Sung, raccontano  le gesta eroiche di un personaggio fuori dal comune, coi caratteri tipici dell’eroe dotato di grande generosità, nobili sentimenti, amore per il popolo.

A questo punto, non possiamo non domandarci: come il mito del Grande Leader ha potuto essere trasmesso e conservato intatto attraverso il tempo?

Penso che osservare più da vicino la società e le istituzioni create nel corso di quasi settant’anni di storia socialista possa essere un buon modo per aiutarci a comprendere.

Prima di tutto le istituzioni culturali. Le scuole, dall’asilo all’università, hanno un ruolo fondamentale nel mantenimento di quello spirito comunitario che ruota attorno alla figura del Padre della Patria. I coreani si considerano un’unica famiglia, tutti figli dello stesso padre, armoniosamente uniti attraverso il comune interesse al mantenimento della patria socialista. L’identificazione con uno Stato che si prende carico di ogni bisogno dei suoi cittadini, per tutto il corso della loro vita, è totale.

Il nostro programma prevede la visita al Palazzo dei bambini. L’altissimo livello tecnico raggiunto dai fanciulli, spesso molto giovani, nell’uso di strumenti musicali, nel canto e nelle arti figurative ci sorprende tutti. Non possiamo non pensare alle nostre “recite di fine anno”. Un confronto impossibile.

Ancor più sorprendente è la visita alla Biblioteca Nazionale di Pyongyang. L’edificio ha più di 600 stanze: sale di lettura, sale per l’ascolto della musica, aule per lo svolgimento di lezioni, laboratori d’informatica, sale conferenze ed un’aula magna in grado di ospitare 800 persone. La ricerca dei testi è effettuata tramite postazioni informatiche collegate alla rete coreana chiamata Kwangmyong, mentre la distribuzione avviene per mezzo di un efficiente sistema di trasmissione automatica. Visitando la Grande Casa degli Studi del Popolo, come è anche chiamata, apprendiamo che qui la biblioteca non è concepita solo come luogo di ricerca e di lettura. Ho potuto osservare di persona due aule in cui si stavano svolgendo una lezione di storia coreana ed un corso di lingua inglese. La cortese giovane che ci faceva da guida ci ha spiegato che ci sono un centinaio di professori a disposizione di chi abbia bisogno di spiegazioni e traduzioni e che i cittadini coreani possono informarsi dei corsi di lingue e delle conferenze che si svolgono nell’edificio attraverso l’emittente televisiva nazionale.

Ma le sorprese non finiscono qui. Contrariamente a quanto saremmo portati a pensare, la storia antecedente al periodo socialista è oggetto di grande attenzione. Visitando Kaesong, ho potuto vedere con quale cura sono stati ricostruiti i quartieri tradizionali. Le case lungo il fiume, addossate l’una all’altra, con i loro tetti dalla forma a pagoda, danno al paesaggio umano un tocco di grazia ed eleganza, secondo quello che era un tempo il senso estetico coreano. I vecchi testi parlano di una particolare attenzione posta nella scelta del sito abitativo. L’ideale era un luogo riparato dalla montagna, abitata dai quattro angeli protettori: il dragone azzurro a est, la tigre bianca a ovest, l’uccello rosso a sud e la tartaruga a nord. Un corso d’acqua doveva scorrere davanti all’abitazione.  Oggi le file di case lungo il fiume, costruite nel fertile suolo verdeggiante di Kaesong, conservano abbastanza quel rapporto armonioso con la natura che era proprio delle case di un tempo.

Ma la notizia che più desta la mia meraviglia, riferita con orgoglio dalla guida locale, è che gli abitanti di Koryo, parola da cui ha origine la parola Corea, nella prima metà del XII secolo, due secoli prima di Gutenberg, furono i primi al mondo a inventare i caratteri metallici per la stampa.

Molti sono ancora i luoghi di interesse che potrebbero essere fonte di riflessione e motivo di confronto con la nostra cultura, dai templi buddhisti ai parchi naturali, dalle cooperative  agricole alle conquiste tecnologiche. Ma lo spazio è tiranno.

Concludiamo la nostra visita a Phanmunjom, dove una sottile striscia di cemento fra tre baracche azzurre segna il confine fra le due Coree. Siamo nella “zona demilitarizzata”, quella terra di nessuno che attraversa la penisola lungo il trentottesimo parallelo. Oggi non c’è nessuno a sud e il sogno della riunificazione sembra allontanarsi. I soldati nordcoreani raccontano la storia della separazione e il sogno, mai tramontato, della riunificazione. Qual è la posizione della Corea del Nord su questo importante problema?

Il governo della Corea del Nord ritiene che la riunificazione nazionale debba realizzarsi senza l’intervento di forze straniere e senza l’uso delle armi e, a partire dal 1953, in occasione dei colloqui di pace, ha riproposto la sua idea per oltre duecento volte. A questo punto una domanda sorge spontanea: come è possibile, dopo tanti anni, in presenza di sistemi economici così diversi  ed ormai consolidati, realizzare un tale sogno? La risposta della Corea del Nord a tale domanda è stata la proposta di una confederazione di due Stati basati sul principio della pacifica convivenza, ognuno rispettoso dell’altrui sistema economico e politico. Il Governo confederale dovrebbe rappresentare un Paese neutrale che non fa parte di nessuna alleanza militare internazionale. Non dimentichiamo, però, che a sud del trentottesimo parallelo vengono svolte regolarmente esercitazioni statunitensi in concomitanza con l’esercito sudcoreano e che gli Stati Uniti sono presenti nel Sud con oltre 40.000 soldati ed un arsenale atomico con più di mille armi nucleari dislocate in tutto il Paese. Ciò significa un’arma nucleare ogni 100 chilometri quadrati, la più alta densità atomica del mondo.

 

 

Considerazioni finali

Il viaggiatore che visita la Corea del Nord si trova di fronte a un mondo che, per la sua forte originalità e per la sperimentazione di un modello di società alternativo a quello del resto del mondo,  è continua fonte di riflessione su fenomeni che da secoli sono stati oggetto di ricerca da parte di filosofi ed antropologi.

Qual è il rapporto individuo-società? Quanto un sistema politico riesce a condizionare il pensiero umano? Che significa essere liberi? La parola libertà può avere un significato oggettivo? Come nasce un mito? Ѐ possibile realizzare una società giusta?

Il problema della società giusta è stato da sempre al centro della riflessione umana. Cos’è la giustizia in senso astratto nessuno è mai riuscito a definirlo. Tutti siamo però di fronte a concreti ed indubitabili esempi di ingiustizia: una società con persone ricchissime accanto ad altre senza lavoro, persone che vivono in dimore sontuose accanto ad altre che vivono per strada. Senza parlare di drammi sociali immensi, quali la droga, la prostituzione, la criminalità, il razzismo, il gioco d’azzardo. In Corea del Nord questi mali sono quasi inesistenti. La casa, la scuola e la sanità sono gratuite, così come le gite d’istruzione, i campeggi e le attività artistiche e sportive. I generi di prima necessità sono venduti allo stesso prezzo, molto basso, in tutto il Paese. Le tasse non esistono. Il lavoro c’è per tutti. La donna e l’uomo sono uguali e quindi la prostituzione è inesistente. La delinquenza è un fenomeno quasi sconosciuto. L’attenzione all’ambiente è esemplare: le vie sono alberate, i giardini e i parchi curatissimi, coperti di aiuole fiorite e frequentati da uccelli, le industrie pesanti lontane dalle città e stazioni di rilevazione dell’inquinamento controllano l’ambiente in tutto il Paese.

Percorrendo la Corea del Nord verso la frontiera cinese, si ha l’impressione di attraversare due mondi, il simbolo della recente storia umana: a est la verdeggiante campagna coreana, le montagne boscose, i corsi d’acqua cristallina, i villaggi immersi nelle piantagioni di riso e mais; a ovest il paesaggio cinese: una foresta di edifici enormi, centri commerciali che spuntano come funghi, un ponte sospeso sul fiume, rimasto incompleto sul versante coreano. Quel ponte rappresenta il futuro, il mondo globalizzato, ignaro della natura e dell’ambiente, verso cui tutti vogliono correre e trasportare dietro di sé anche il mondo coreano, ancorato caparbiamente alla sua visione della vita, a quella filosofia corale, radicalmente alternativa al nostro modo d’intendere il vivere sociale e le libertà individuali.

In Corea del Nord la dimensione collettiva della vita è nettamente prevalente su quella individuale: le manifestazioni coreografiche, l’organizzazione del lavoro nelle cooperative, le grandi parate militari, i gruppi di gente che la domenica si recano nei parchi, si riuniscono sotto gli alberi e cantano e mangiano insieme, le colonie dei bambini che vanno al mare con l’organizzazione del Partito sono fenomeni che ci parlano, sì, di un mondo controllato e disciplinato, ma anche di vita comunitaria e di solidarietà. Siamo sicuri che la soluzione occidentale, con il suo individualismo esasperato e i suoi fenomeni di solitudine, con le tragiche conseguenze che tutti conosciamo, sia la migliore in assoluto?

La mitologia costruita attorno al Presidente eterno e alla dinastia ereditaria, il culto della personalità, fenomeni sovente presi di mira dal sarcasmo e dal disprezzo occidentali, costituiscono un laboratorio contemporaneo che potrebbe far luce sulla nascita dei miti e sull’origine di una dinastia ereditaria che, caso unico nell’universo comunista, ha caratteri simili a quelli delle antiche civiltà. Ci si potrebbe chiedere in che misura la storia coreana, con le sue tradizioni buddiste e confuciane, abbia influito su una particolare forma di socialismo che non ha eguali in altre parti del mondo.

Purtroppo, ho avuto modo di osservare, in più di un’occasione, come l’Occidentale in visita in Paesi molto diversi dal suo, ponga sempre se stesso al centro del mondo e della storia, dando giudizi affrettati sulle altre culture, con la certezza dogmatica di chi ha risolto tutti i misteri della vita. Non appena vede un elemento che ricorda la nostra società del passato, subito dipinge “gli altri” come arretrati, fermi agli anni Venti o Cinquanta o Sessanta, come se l’Occidente fosse il fulcro attorno al quale ruota la storia del mondo, il centro temporale a cui tutti i popoli si devono uniformare. E più il sistema osservato è lontano da quello abituale, più l’esperimento sociale è audace, più i giudizi si fanno astiosi, intrisi di disprezzo, fino a rasentare la xenofobia. I Nordcoreani sono stati dipinti come un popolo di automi o di schiavi; a volte vivono in città vuote, finte, non si sa dove; altre si muovono a branchi, sempre in silenzio, vittime di un sistema spietato e disumano. A nessuno è venuto il dubbio che, se per caso fosse vero, ciò significherebbe che la mente umana è così fragile e malleabile che ogni sistema può farne ciò che vuole. E allora l’esperimento coreano potrebbe farci venire qualche dubbio anche sul nostro sistema, sulla nostra tanto sbandierata libertà. Siamo proprio sicuri che il nostro sia il migliore dei mondi possibili? In realtà, a qualcuno, già duecento anni fa, qualche dubbio era venuto.

“Nessuna persona ridotta in schiavitù vive in condizioni peggiori di coloro che credono a torto di essere liberi”. Lo disse Johann Wolfgang von Goethe.


Un gruppo di persone che fa il picnic nel parco di Moranbong, Pyongyang

Un gruppo di persone che fa il picnic nel parco di Moranbong, Pyongyang


 
Un'immagine della Corea tradizionale, museo di Sariwon

Un’immagine della Corea tradizionale, museo di Sariwon


 
Un antico gioco tradizionale, lo iut-nori, museo di Sariwon

Un antico gioco tradizionale, lo iut-nori, museo di Sariwon


 
Lezione di calligrafia, Palazzo dei Bambini, Pyongyang

Lezione di calligrafia, Palazzo dei Bambini, Pyongyang


 
Monumento alla riunificazione, Pyongyang

Monumento alla riunificazione, Pyongyang


 
Il confine fra le due Coree

Il confine fra le due Coree


 

 

Fonti

La Corée, aperçu général, Editions en Langues Etrangères, Pyongyang, 1999;

Kim Kwang Il, Pak Hak Il e Han Jong Yon, Anecdotes relatives à Kim Il Sung, Editions en langues étrangères, Pyongyang, 2011;

www.italiacoreapopolare.it

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VOTO LOCALE DAL RESPIRO INTERNAZIONALE. LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN KOSOVO

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Un’elezione lunga un mese e divisa in tre atti (1) quella che si è tenuta nella provincia separatista (e contesa) serba del Kosovo e con la quale sono state rinnovate le amministrazioni delle municipalità di cui si compone.

L’evento elettorale rappresentava il concreto attuarsi del punto 11 dell’accordo siglato il 19 aprile a Bruxelles dai premier Thaci e Dacic, secondo il quale consultazioni elettorali si sarebbero tenute su tutto il territorio della provincia autoproclamatasi Stato nel 2008 nel quadro di riferimento legale del Kosovo. Le elezioni del 3 novembre, quindi, hanno rappresentato la prima pietra dell’organizzazione territoriale della regione sotto il controllo di Pristina: con la chiusura di tutte le strutture controllate e finanziate dalla madrepatria e presenti nella parte settentrionale termina la presenza nominale serba nel Nord del Kosovo e si conferma, de facto, l’indipendenza della provincia a maggioranza albanese. Il voto, infatti, serviva soprattutto a dare forma e rappresentanti legali a quelle nuove strutture autonome dei serbi del Kosovo previste dall’accordo di Bruxelles, dotate di poteri esecutivi, propri organi di rappresentanza e inquadrate nella cornice costituzionale della Repubblica del Kosovo.

 

 

 

LOCALE DAL RESPIRO GLOBALE: GLI INTERESSI DIETRO LE ELEZIONI

Pur trattandosi di un voto per il rinnovo di istituzioni amministrative, i diversi interessi ancora presenti nella regione hanno trasformato la consultazione da puramente locale in qualcosa di interessante a livello internazionale.

Ovviamente, erano di particolare interesse per l’assetto interno e la maturità statuale del Kosovo: dato che queste erano le prime elezioni che si tenevano sull’intero territorio della regione – in precedenza i serbi del Nord avevano votato in elezioni organizzate da Belgrado –  Pristina doveva dimostrare di essere in grado di organizzare elezioni libere, democratiche e trasparenti. La realtà dei fatti ci restituisce una Repubblica del Kosovo come uno Stato ancora non maturo, tuttora in transizione, che non sembra pronto per camminare con le proprie gambe – il Kosovo è il Paese più povero del Vecchio Continente, con una economia inesistente, un tasso di disoccupazione superiore al 30% e un livello di povertà (intorno al 30%) direttamente proporzionale a quello della corruzione che dilaga in tutti i settori e a tutti i livelli – e con una fiducia nelle istituzioni ancora tutta da costruire (il dato relativo all’affluenza alle urne è significativo: al primo turno dei circa 1.700.000 potenziali elettori si sono recati alle urne assai meno del 50% degli aventi diritto, mentre il dato è sceso al 40% in occasione del secondo turno che si è tenuto l’1 dicembre). (2)

Anche Belgrado guardava con sguardo interessato a quanto succedeva ai seggi e attendeva con ansia i risultati del voto perché considerava le elezioni il mezzo formale per legittimare la propria presenza in Kosovo attraverso la vittoria alle urne della lista Iniziativa Civica “Srpska” – fortemente finanziata e sponsorizzata dalle istituzioni serbe – che avrebbe, conseguentemente all’affermazione elettorale, garantito il controllo della futura della Comunità delle Municipalità serbe (da adesso CMS).

I terzi attori ad avere interesse nel buon andamento delle elezioni erano l’Unione Europea e, di rimando, gli Stati Uniti – o viceversa – che consideravano le amministrative come parte integrante della messa in pratica degli accordi stipulati a Bruxelles e un passaggio obbligato in vista dei prossimi passi verso l’allargamento comunitario nella regione balcanica. Il 28 ottobre 2013 si era registrato un nuovo momentum nelle relazioni UE – Kosovo con la firma del Stabilisation and Association Agreement (SAA), primo passo concreto per l’integrazione europea della regione.

Queste elezioni hanno un’importanza eccezionale per il futuro del Kosovo. Così si era espressa l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e sicurezza Catherine Ashton nei giorni immediatamente successivi il primo turno del 3 novembre.

E per la politica europea, verrebbe da aggiungere. Per entrare in una seria relazione con Bruxelles, Pristina necessita di implementare i valori comunitari come la libertà, la democrazia, una buona gestione dello Stato, il rispetto dei diritti umani e la costituzione di uno stato di diritto. In quest’ottica, le elezioni amministrative rappresentavano un primo test sia per valutare la maturità del Kosovo, della sua politica, dei suoi rappresentanti e della sua popolazione sia, per Bruxelles, per valutare la politica estera e di allargamento dell’Unione Europea nella regione. Viste sotto questa luce, non meraviglia se le delegazioni internazionali hanno salutato come un successo un evento elettorale caratterizzato da standard minimi, scarsa partecipazione, incidenti ai seggi, liste elettorali piene di errori. Per i delegati dell’OSCE, organismo preposto alla supervisione elettorale, seppur costretti alla fuga dall’assalto ai seggi di Mitrovica Nord, il processo si è tenuto in modo regolare. Questo, invece, il giudizio di Roberto Gualtieri, capo delegazione dell’UE in Kosovo: “il 3 novembre è stato un giorno molto importante per il Kosovo. I kosovari hanno colto l’opportunità di votare, per esprimere il loro diritto democratico e per scegliere i loro rappresentanti. Nella maggior parte del Paese, la giornata elettorale si è svolta in maniera calma e pacifica. Certamente condanno gli attacchi nel Nord di Mitrovica/Mitrovicë che sono stati non solo attacchi ai seggi, ma al diritto fondamentale delle persone di esprimere la loro volontà attraverso le urne. Ciononostante, il fatto che le persone siano andate a votare dimostra il fallimento di coloro che intendevano boicottare il voto”. (3)

In Kosovo, la parola successo ha assunto, quindi, sfumature inattese e un carattere relativo perché il giudizio sullo svolgimento delle elezioni non poteva che essere positivo: la presenza di un failure State alle porte d’Europa è inaccettabile per le istituzioni comunitarie che in questa regione si stanno giocando una partita internazionale di vitale importanza. Ne andava delle strategie di politica estera operate da Bruxelles che ha dimostrato di non avere un piano B rispetto al perseguire un progetto di integrazione europea nei Balcani resosi sempre più necessario per contrastare l’attivismo diplomatico ed economico turco – le parole di Erdogan Türkiye Kosova’dır, Kosova Türkiye’dir (la Turchia è Kosovo, il Kosovo è Turchia)  pronunciate in occasione di una recente visita nella regione  ha posto un ulteriore preoccupazione nella diplomazia di Bruxelles – e russo; e ne andava, inoltre, del cinico prestigio di Lady Ashton, pronta a lasciare la carica nel 2014 non prima di aver segnato un risultato tangibile del proprio operato.

 

 

 

LE CONSEGUENZE DEL VOTO

 

La mappa del potere in Kosovo

Le elezioni amministrative hanno cambiato la mappa e gli equilibri del potere interno del Kosovo tanto che, come ha titolato il quotidiano di Pristina Koha Ditore, abbiamo assistito ad un Terremoto in Kosovo: gli elettori hanno punito, in via diretta, gli amministratori locali verso cui l’insoddisfazione era palpabile e, per via indiretta, i centri di potere della capitale.

Ramush Haradinaj, recentemente assolto dal Tribunale de L’Aja ed esponente di prestigio dell’Alleanza per il futuro del Kosovo (AAK), analizzando a caldo la natura del voto ha fatto notare come il risultato delle elezioni sia dovuto allo scontento e l’insoddisfazione per la governance a livello nazionale. Questo stato d’animo verso il potere centrale si riflette a livello locale dove i cittadini hanno manifestato la propria opinione verso coloro che li amministrano al livello più basso.

D’altronde, il dialogo con Belgrado e l’accordo di Bruxelles hanno fatto emergere un sentimento contrario alle linee della normalizzazione e, insieme, hanno fatto sì che l’attenzione si spostasse sui problemi interni e sulla necessità di riforme strutturali per lo sviluppo del Paese.

In tutto questo, un dato è innegabile: la perdita di consensi e di appoggio al sistema di potere centrato sulla figura del premier Hashim Thaci, il grande sconfitto. Il suo Partito Democratico del Kosovo (PDK) ha perso molte municipalità anche a causa dei numerosi processi per corruzione cui i suoi esponenti e candidati sono implicati; rete di corruzione che, secondo alcuni analisti, ha consentito finora a Thaci di mantenere il controllo su un Paese che è governato da strutture informali, la cui assemblea parlamentare è disfunzionale e sottoposta alla volontà di “supervisori invisibili” che sono le potenze del Quint (4).

I risultati dovrebbero portare a riflessioni profonde sugli equilibri di potere tra le forze politiche in vista delle prossime elezioni parlamentari. Se sino a questo momento, le forze di opposizione al potere di Thaci hanno mostrato incapacità di attrarre consensi necessari per formare una vera e credibile alternativa per un cambio di Governo, adesso, con la mappa del potere che ha assunto nuove forme, gli scenari futuri per la politica interna del Kosovo sembrano essere destinati a mutare: il PDK ha subito una forte perdita, in termini di suffragi e di municipalità, anche in molti centri considerati roccaforti del partito e, in virtù di questo, la Lega Democratica del Kosovo (LDK) si candida fortemente a divenire il primo partito del Kosovo dal momento che ha fatto registrare una vittoria in nove municipalità e ha ridotto il gap con il PDK in termini di voti; anche se, dopo 14 anni, Isa Mustafa, leader del partito, ha perduto la capitale Pristina che adesso verrà amministrata da Shpend Ahmeti del Movimento Autodeterminazione! (Vetevendosje), contrario all’accordo di Bruxelles. Male, contro ogni previsione, l’AAK di Haradinaj, cui non è bastato il ritorno in patria del vecchio leader per ottenere un risultato soddisfacente, che ha vinto in sole tre municipalità e perduto due importanti roccaforti come Peja e Gjakova.


 
Serbia, serbi e elezioni nel nord del Kosovo

Le elezioni amministrative hanno messo in evidenza un altro fatto difficilmente negabile: la divisione tra i serbi che vivono a Nord del fiume Ibar, nella parte settentrionale della regione, e quelli che, invece, vivono nelle enclaves sparse sul resto territorio. Il diverso tasso di partecipazione ne è la testimonianza tangibile: a fronte di un marcato astensionismo registrato nelle municipalità del nord (al primo turno poco più del 12%) ha fatto da contraltare una notevole partecipazione dei serbi che vivono a Sud del fiume Ibar dove si sono toccate anche punte del 60%. RadaTrajkovic, deputata della Lista Unica Serba al Parlamento di Pristina e cittadina di Gracanica alla vigilia delle elezioni aveva delineato le differenze tra i serbi che vivono in Kosovo: “Noi nelle enclaves abbiamo già passato un processo difficile che aspetta i Serbi del Nord. Siamo passati nella posizione che dobbiamo lottare da soli, ma nel Parlamento del Kosovo adesso si sente la voce di resistenza. Noi abbiamo lottato per il riconoscimento, ma come spiegarlo ai serbi del Nord”.

Il dato sopra riportato non deve sorprendere perché la popolazione del Nord non è preparata a lasciarsi alle spalle gli anni di rivendicazioni e di guerra. Quattordici anni sono pochi per dimenticare e l’idea sostenuta da Belgrado e da Bruxelles, che i serbi avrebbero partecipato numerosi al voto, si è rivelata essere un puro azzardo.

Aleksandar Vucic, Presidente del Partito Progressista Serbo, aveva rivolto un accorato invito a serbi del Nord del Kosovo a recarsi alle urne: “voi siete gli unici che possono mantenere e preservare la Serbia in Kosmet”. Al primo turno, invece, i serbi non hanno dato ascolto alle voci belgradesi e hanno disertato le urne. Neppure Krstimir Pantic, l’uomo forte di Belgrado in Kosovo, candidato a sindaco di Mitrovica Nord e esponente di spicco della Iniziativa Civica “Srpska” è riuscito a convincerli. Se in questa elezione l’importante era soprattutto partecipare, ha ragione Slobodan Eritz a sostenere che le elezioni nel nord del Kosovo sono state boicottate e hanno subito un fiasco completo e che, analizzate dal punto di vista della sovranità serba, le elezioni che si sono svolte nella provincia meridionale serba del Kosovo e Metohija, sono state perse. La sconfitta non risulta dal risultato delle elezioni, ma dalla decisione del Governo della Serbia di invitare i serbi del Kosovo a partecipare alle elezioni organizzate dal Governo separatista di Pristina. I serbi del nord del Kosovo, nonostante le forti pressioni ricevute da Belgrado, hanno boicottato le elezioni: al primo turno ha votato circa il 5%, e al secondo, dopo una feroce pressione politica e mediatica, meno del 20%. I serbi del nord del Kosovo considerano queste “chiamate”, questi inviti delle autorità di Serbia, in realtà, come costrizioni a vivere in una auto-proclamata “Repubblica del Kosovo”, che non riconoscono (5).

Eppure le elezioni amministrative erano importanti proprio per il Nord del Kosovo visto che da queste sarebbero stati eletti coloro che devono, adesso, rappresentare i vertici della costituenda CMS. Per questo motivo, Belgrado aveva indicato (e confidato) nella partecipazione alle elezioni l’unico mezzo per proteggere gli interessi serbi in Kosovo e invitato gli elettori a convogliare le loro preferenze sulla lista Iniziativa Civica Srpska i cui candidati sono stati presentati come coloro che tuteleranno la Serbia ed i serbi in Kosovo. La lista Srpska ha vinto in nove delle dieci municipalità a maggioranza serba (6).

Ma ha vinto davvero Belgrado?

La narrazione serba continua a presentare la CSM come una vittoria dello Stato serbo in Kosovo e la possibilità scaturita dalle urne di poterla costituire non può che essere considerata una vittoria: la Serbia ha ottenuto in Kosovo una vittoria storica, grazie alla quale sono state poste le fondamenta per la creazione della Comunità dei comuni serbi – ha dichiarato il consulente del Presidente dello Stato Marko Djuric – Dopo i risultati del secondo turno delle elezioni amministrative in Kosovo nessuno, nemmeno le autorità di Pristina, potrà fermare la formazione della Comunità dei comuni serbi. Una posizione forte della Serbia sul terreno renderà più forte la sua posizione nel dialogo che si conduce a Bruxelles. Alle autorità di Pristina non piace tutto questo (7). Vista in questa luce appare di fondamentale importanza la vittoria dei candidati della Srpska perché, essendo più vicini politicamente al Governo di Belgrado, rappresentano il modo più sicuro per fare in modo che la Serbia possa continuare a curare i propri interessi e quelli dei serbi della regione attraverso il controllo della CMS.  

Se la possibilità di costituire l’associazione delle municipalità serbe era un qualcosa di ascrivibile alla realtà più probabile, quel che a Belgrado non avevano messo in preventivo alla vigilia era di trovarsi a dover fronteggiare un confronto fra serbi sfociato nel successo del boicottaggio del primo turno delle elezioni nelle municipalità settentrionali. Questo rappresenta una sconfitta soprattutto per l’uomo emergente della politica serba, quell’ Alexander Vucic il cui futuro politico dipende dalla riuscita della prospettiva europea (che a sua volta dipende dalla capacità di Belgrado di attuare l’accordo di Bruxelles) e che ha sostenuto con forza l’accordo di Bruxelles invitando i serbi nel Nord del Kosovo al voto in nome dell’Europa: gli albanesi sono i vincitori perché sono state organizzate le prime elezioni in tutto il territorio della provincia, anche se poi effettivamente boicottate dal nord. Il perdente è la Serbia, per meglio dire l’attuale Governo di Belgrado, che per favorire l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea fa concessioni che non hanno mai fine e che sono dannose per gli interessi nazionali. Nelle parole di Slobodan Eritz, direttore della rivista Geopolitika, è ancora viva, dunque, l’opinione che vuole la Serbia asservita ai desideri di Unione europea e Stati Uniti, vale a dire riconoscere il Kosovo in maniera incondizionata.

 

 

 

PROSPETTIVE

La prima sfida che attende Pristina e Belgrado afferisce proprio dalla Comunità delle Municipalità serbe: dagli anni 90′ fino al mese di aprile di questo anno tutte le decisioni riguardanti il Kosovo erano di competenza della Serbia. La costituzione di questa entità amministrativa cambia le prospettive. L’accordo firmato a Bruxelles sottintende un bilanciamento dei poteri nella parte settentrionale della regione e non un riconoscimento della sovranità di Pristina ed è strettamente legato a garantire una forma di autonomia da Pristina ai serbi del Nord del Kosovo rappresentata dalla stessa Comunità che, parafrasando le parole di Aleksandar Vulin, direttore dell’ufficio per il Kosovo e Metohija, non sarà una organizzazione non governativa, avrà una sua rappresentanza a Bruxelles e sarà internazionalmente riconosciuta, avrà il pieno controllo su sanità, istruzione, crescita economica e pianificazione territoriale. Adesso, le parti in causa dovranno lavorare per soddisfare la necessità di trasformare le linee dell’accordo in incentivi tangibili per i serbi del Nord Kosovo per poter andare oltre l’astratta previsione della CMS.

Le parole di Kristmir Pantic, eletto sindaco di Mitrovica Nord a capo della lista Iniziativa Civica Srpska, sono un evidente sintomo di come l’Associazione delle Municipalità serbe rappresenti una barriera per impedire il riconoscimento del Kosovo quale Stato indipendente: “(in) nove comuni con la maggioranza serba hanno vinto la politica ufficiale dell’esecutivo serbo e la Serbia. Grazie a questa vittoria sarà continuata la nostra lotta per la sovranità serba in Kosovo. In nove comuni dove avremo la maggioranza i serbi continueranno a proclamare ad alta voce che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo”. È chiaro come la Serbia e i suoi rappresentanti nel Nord del Kosovo non accetteranno l’interferenza di Pristina e questo è difficile da accettare per le istituzioni kosovare. Gli albanesi guardano alla nascita dell’Associazione alla stregua di una nuova Repubblica Srpska, un’entità separata all’interno del proprio territorio ma oltre il suo controllo. Pur non avendo lo stesso carattere giuridico della Republika Srpska di Bosnia a Pristina si teme ancora che si arrivi ad una bosnianizzazione della regione, timori alimentati anche dal fatto che l’accordo di Bruxelles non fa menzione dei legami tra la CMS e Belgrado e, soprattutto, non li regolamenta.

Pristina, ovviamente, vorrebbe il controllo del Nord ma non potendolo ottenere nel breve periodo – se non ricorrendo ad un improbabile atto di forza – può attuare una strategia di lungo periodo  proprio in virtù dei risultati delle elezioni amministrative:  la lista Iniziativa Civica Srpska affine al credo politico di Belgrado, infatti, dovrà condividere il potere locale con altri partiti, tra cui, per esempio, la Iniziativa Civica SDP di Oliver Ivanovic, più aperti al dialogo con Pristina. Questo scenario potrebbe far vacillare la visione strategica di Belgrado dal momento che, per governare, la Srpska dovrà formare delle coalizioni con altre forze politiche. La cornice di riferimento del discorso strategico serbo non è solida: se non fossero state ripetute le elezioni nei seggi di Mitrovica si sarebbe rischiato di avere un sindaco e una maggioranza del consiglio municipale albanesi e a quel punto il castello di carte sarebbe crollato. Slobodan Eritz è convinto che, una volta appurata la riuscita del boicottaggio, siano stati inscenati finti incidenti, al fine di trovare una ragione formale per la ripetitività del voto, e poi, attraverso una maggiore pressione politica e mediatica si sia alzata l’affluenza dei serbi alle urne, in quanto questi ultimi sapevano di quanti voti avevano bisogno per far eleggere un sindaco serbo. Nell’opinione del giornalista esperto di questioni balcaniche Jean-Arnault Derens, annullare le elezioni permette ai protagonisti degli “storici” accordi degli scorsi mesi di non perdere la faccia, gettando l’intera responsabilità dell’accaduto addosso ai “radicali” mascherati, impossibili da riconoscere. (…) Nel breve termine, gli incidenti fanno il gioco di Belgrado, perché se le elezioni si fossero svolte senza intoppi, il passo seguente sarebbe stato necessariamente il riconoscimento dell’indipendenza della provincia. La Serbia può guadagnare tempo (8).

Può guadagnare tempo ma l’attuale posizione di forza data dalla vittoria della Srpska potrebbe indebolirsi nel medio periodo perché strettamente legata ai risultati delle elezioni. Se questi non si confacessero alla visione serba? Se vincessero candidati non legati ai partiti di Belgrado? Se a vincere fossero gli esponenti dei partiti che aprono al dialogo con le istituzioni della provincia? (9)

Nel medio e lungo periodo, questo scenario avvantaggia Pristina che può cercare di influenzare la CMS facendo pressione su quei partiti serbi che sono aperti ad una collaborazione per, poi, vincolarli alla propria linea politica.

Rimane in sospeso la questione relativa al riconoscimento del Kosovo: la legittimità internazionale delle istituzioni di Pristina è strettamente legata ai desideri politici serbi e rimane legata al cammino europeo di Belgrado.  Se si pensa che anche l’implementazione dell’accordo siglato a Bruxelles non ha garanti e garanzie internazionali e che questa si basa solo sulla buona volontà delle due parti, si comprende come l’edificio sia costruito su fondamenta tutt’altro che solide.

Il successo di facciata delle elezioni amministrative permette, però, alla Serbia e al Kosovo di rilanciare e di continuare il proprio cammino verso l’integrazione nelle strutture comunitarie. Come ben fa notare Matteo Tacconi in un articolo apparso su Longitude, una delle ragioni di questo desiderio europeo è money, il denaro. (10) Nikolic, una volta eletto Presidente nel maggio dello scorso anno, dipinse il proprio Paese come una casa con due porte, una rivolta verso l’UE e una rivolta verso la Federazione Russa. Quest’ultima, nonostante gli investimenti in settori chiave non sembra in grado di generare cambiamenti nella vita economica della Serbia e, per questa ragione, l’avvicinamento a Bruxelles è diventato prioritario per Belgrado. Ovviamente, anche Pristina ha l’occasione di rilanciare la propria debole (se non inesistente) economia con il supporto forte e presente dell’UE attraverso i fondi IPA (Instrument for Pre-Accession Assistance) destinati alla regione.

L’integrazione europea deve essere giocata su tre diversi campi: sulla progressiva stabilizzazione della regione, sulla riconciliazione e sullo sviluppo economico e sociale. Se per quest’ultimo aspetto si sono fatti considerevoli passi avanti, le recenti elezioni amministrative kosovare hanno lasciato in sospeso i problemi relativi ai primi due campi di azione. Il cinismo spicciolo di Catherine Ashton e il suo desiderio di lasciare un segno tangibile del proprio operato prima di lasciare la carica di Alto Rappresentante per la politica estera europea hanno fatto sì che  l’accordo del 19 aprile fosse basato sul concetto di mono-etnic based solution e rendesse vani 14 anni di tentativi di costruzione di uno Stato multietnico con la netta separazione tra i serbi e gli altri. La formazione della CMS renderà più profonda questa divisione: è improbabile, infatti, che l’implementazione delle linee guida dell’accordo porti ad una totale integrazione dei serbi del Nord del Kosovo all’interno della cornice legale del nuovo Stato; è, bensì, più probabile che si verifichi un accentuarsi della divisione interetnica resa possibile stavolta dalla separazione istituzionale rappresentata dalla CMS.

Alla luce di questo, non è facile capire chi sia il reale vincitore delle elezioni.

 

 

 

Note 

 

1.         Il primo turno delle elezioni si è tenuto il 3 novembre mentre il secondo l’1 dicembre. Il 17 novembre, invece, si è ripetuto il voto nei tre seggi di Mitrovica Nord assaltati durante il primo turno e che ha spinto la Commissione Elettorale Centrale di Pristina a rendere nullo il voto e a ripeterlo.

2.         Per alcuni dati sull’economia del Kosovo consigliamo la lettura dell’articolo http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/La-fragilita-economica-del-Kosovo-130750 mentre per i dati relativi alle elezioni rimandiamo al sito ufficiale della Commissione Elettorale Centrale di Pristina http://82.114.76.26/NightResults/Results.aspxRaceID=1&UnitID=1&IsPS=0&Turnout=3&LangID=1

3.         http://www.partitodemocratico.it/doc/262121/elezioni-amministrative-in-kosovo-gualtieri-importante-passo-in-avanti-verso-la-democrazia.htm

4.         Per comprendere le modalità decisionali in Kosovo rimandiamo all’interessante articolo di Henrique Schneider, The Village and the Municipality in political struggle: a case study in today’s Kosovo, Balcanistica, num. 26, 2013, pp. 161 – 181.

5.         Intervista completa a Slobodan Eritz http://www.eurasia-rivista.org/intervista-sulla-situazione-in-kosovo-e-metohija-a-slobodan-eritz/20456/

6.         La lista Iniziativa Civica Srpska ha vinto a Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan, Leposaviq, Novo Brdo, Gracanica, Partes, Ranilug, Klokot. A Strpce, invece, a vincere è stato il candidato del Partito Liberale Indipendente (SLS), favorevole al dialogo con Pristina.

7.         http://voiceofserbia.org/it/content/djuric-nessuno-pu%C3%B2-formare-la-creazione-della-comunit%C3%A0-e-comui-serbi

8.         http://www.lindro.it/politica/2013-11-06/106929-kosovo-per-la-normalizzazione-servira-tempo

9.         Anche una vittoria al ballottaggio di Oliver Ivanovic con la sua Iniziativa Civica SDP avrebbe creato delle difficoltà a Belgrado nel mantenere il saldo controllo dell’Associazione delle Municipalità considerato il fatto che Ivanovic si è sempre dichiarato favorevole al dialogo con Pristina e che questi non appartiene a nessun partito di stanza a Belgrado.

10.       Tacconi M., Let’s Make a Deal, Longitude, numero 28, anno 2013, p. 71.

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SOCHI 2014: DI NUOVO “SPORT E POLITICA”

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Obama ha già fatto sapere che non andrà, così come tutti gli altri membri della sua Amministrazione. E lo stesso farà l’accoppiata francese Hollande-Fabius. A costoro, presumibilmente, si accoderanno, “in rappresentanza” delle rispettive popolazioni, i capi di Stato ed i presidenti del Consiglio di altre nazioni-simbolo della democrazia.

Sì, perché il motivo del rifiuto di  presenziare alla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici invernali di Sochi, che si terranno nella città russa dal 7 al 23 febbraio del 2014 (con la coda di quelli “paraolimpici” dal 7 al 16 marzo),  muove ufficialmente dalle “discriminazioni” che il Cremlino eserciterebbe nei confronti dei “diritti degli omosessuali”, o della “comunità gay”, com’è d’uso affermare in ossequio al linguaggio “di genere” e “comunitario” di fabbricazione anglosassone.

Nel frattempo, la suddetta “comunità” approva, facendo la conta delle defezioni.

A completare lo sgarbo (in verità, una puntura di spillo), vi è l’atleta scelto dalla Casa Bianca per rappresentarla in quest’occasione ufficiale. Si tratta di Billie Jean King, una “icona” (termine quanto mai fuori luogo in Russia…) del movimento LGBT americano, e più precisamente di quella sua parte inserita del mondo dello sport a stelle e strisce.

Ora, sono pienamente consapevole che tutto ciò è considerato dai più come un argomento al limite del pittoresco che non meriterebbe tutte queste attenzioni. Peccato però che in questi stessi giorni (tanto per fare un esempio), personaggi del calibro di Kerry o McCain sono intenti a tempo pieno nella mobilitazione della “piazza” ucraina che reclama l’adesione all’Unione Europea, per strappare quella nazione così vicina alla Russia dalla sua sfera d’influenza.  La politica internazionale, d’altra parte, è fatta di queste cose: pochi comandano veramente, e gli altri finiscono sotto il mantello di quei pochi. Come noi europei, costretti nella camicia di forza di una “unione” che va rivelandosi per quello che era sempre stata nelle intenzioni dei suoi promotori “europeisti”: l’Unione Euro-Atlantica.

Una volta chiarito questo, si capisce quindi bene il fatto non marginale che sia l’America in prima fila – e non l’UE stessa – a scaldarsi per una “Ucraina in Europa”.

Ma più che altro bisogna rendersi conto, e una volta per tutte, che quello che viene definito “soft power” (propaganda, persuasione palese e occulta, “cultura” e “intrattenimento” eccetera) non è meno incisivo (e decisivo) dell’“hard power” (le care vecchie “cannoniere”, insomma).

Così, tutto questo scandalizzarsi regolare e sincronico da parte dei politici occidentali per le “discriminazioni verso i gay” in giro per il mondo, oltre che rappresentare uno strumento per riscuotere del consenso (soprattutto in casa propria) ed un corrispondente dissenso contro il nemico, costituisce un’arma vera e propria, attraverso la quale, nel caso riuscissero a provocare una ‘falla’ nella diga posta dalle autorità russe, poter poi inserire altri tasselli di quello che i teorici dell’ideocrazia americana prefigurano come un fantastico “Mondo nuovo” nel quale tutti saranno finalmente “liberati”.

In altre parole, in tutta questa preoccupazione per i “diritti dei gay” (ma anche delle “donne” o delle “minoranze”, assurte a categorie monolitiche) c’è, da una parte, l’evidente uso strumentale di una questione creata a tavolino per scopi propagandistici, dall’altra,  la volontà di provocare e, progressivamente traviare, una società che non ne vuol sapere di “aggiornarsi”.

E non si creda che alla base di tutto ciò vi sia l’amore per la “diversità”, o meglio per l’evidente e provvidenziale varietà insita nel genere umano. Ha affermato la portavoce della Casa Bianca: “La nostra delegazione a Sochi rappresenta la diversità che gli Stati Uniti costituiscono”. Ci vuole effettivamente una bella faccia tosta per dire queste cose ai russi, che nella loro Federazione comprendono oltre centocinquanta popoli autoctoni diversi, mentre gli Stati Uniti, a parte le “comunità” di immigrati ostentate come prova della loro “tolleranza”, non hanno saputo far di meglio che rinserrare in “riserve” tutti i popoli preesistenti all’arrivo dei “Padri fondatori”.

Attenzione, dunque, perché nessun piano dell’azione a favore della “comunità gay” esclude l’altro. Perciò sbaglia sia chi vede in tutto ciò della mera “aria fritta”, sia chi pensa che l’unico obiettivo occidentale sia la conquista di un puro “spazio geopolitico” per arraffare risorse e dominarne le popolazioni per soli fini economici e “di potenza”.

No, l’obiettivo, se così si può dire è “di civiltà”, ma una “civiltà” per l’appunto a rovescio rispetto a quella conosciuta sin qui e che tutti i popoli hanno considerato “normale” nelle sue linee essenziali e archetipiche.

Intanto, noi italiani, che stiamo sempre coi piedi in due staffe (e meno male, considerata la situazione!), non è chiaro che cosa faremo, ovvero se ci allineeremo agli altri occidentali o meno. Ci limiteremo – credo – alle solite dichiarazioni di facciata per non irritare “l’alleato”, ma alla fine, come nel 1980 alle Olimpiadi di Mosca, manderemo regolarmente non solo la nostra delegazione sportiva, ma anche alcuni rappresentanti del governo, che non può non tenere nel debito conto l’importanza della Russia sia dal punto di vista strategico sia da quello appena menzionato della salvaguardia dei fondamentali della “civiltà”.

Come ha recentemente e magistralmente dimostrato Vladimir Putin che, in visita al Papa, gli ha donato un’immagine della Vergine Maria, di fronte alla quale s’è sentito di in dovere, lui per primo (!), di porgere il dovuto rispetto.

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LA FIAMMA DI GAZPROM ILLUMINA L’AQUILA RUSSA

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Sia che si utilizzi il calendario gregoriano oppure, nel caso degli ortodossi, quello giuliano, il 2013 sta in ogni caso volgendo al termine. Un anno ricco di soddisfazioni per la Russia e di conseguenza per Vladimir Putin, il quale ha consacrato con le questioni siriana, prima, e del nucleare iraniano, poi, il definitivo ritorno del paese eurasiatico quale protagonista delle relazioni internazionali. Tuttavia, le soddisfazioni non sono venute esclusivamente dalle qualità diplomatiche del presidente russo e del suo brillante ministro degli Esteri, Lavrov, ma è stato anche il colosso energetico di stato Gazprom – efficace e convincente strumento di politica estera di Mosca in Europa e nel mondo – a mietere importanti successi a livello internazionale, stringendo accordi di rilevanza strategica.

Il più recente e importante sotto molteplici punti di vista è ovviamente quello che ha riguardato l’Ucraina di Yanukovich, il quale, dopo essere rimasto alla finestra nei giorni delle intense ma spaesate manifestazioni (le varie fazioni scese in piazza richiedevano un’adesione all’UE in termini irrealizzabili nella realtà), ha convenuto nell’accettare la proposta del Cremlino, rivelatasi l’unica affidabile. Questa ha avuto come basi dell’accordo l’investimento di 15 miliardi di dollari nel debito di Kiev e soprattutto l’ingente sconto sulle forniture di gas – pari a un terzo del prezzo attuale – che diventerà effettivo dal 1 gennaio 2014, garantendo più che una boccata d’ossigeno alla traballante economia ucraina. Dovendo questa fare affidamento più sul pragmatismo di Mosca (e quindi di Gazprom), che sulle ingannevoli sirene di Bruxelles.

Nel piano di ristabilimento dell’influenza russa sui paesi storicamente vicini per motivi storico-religiosi e che fa seguito alla volontà di Putin nel riavvicinare l’Ucraina alla Madre Russia, un altro importante tassello è costituito dalla Serbia. Belgrado si è trovata a spegnere gli entusiasmi per l’ingresso nell’Unione Europea dopo aver valutato con attenzione sia i risultati delineatisi nelle limitrofe Slovenia e Croazia, che la dubbia affidabilità degli investimenti comunitari, volgendo nuovamente lo sguardo verso il suo maggior investitore estero e storico alleato: Mosca. Un prestito di 500 milioni di dollari è stato accordato nella scorsa primavera per bilanciare il calo del flusso di denaro proveniente dall’eurozona, ed è notizia recente la volontà da parte della Russia di investire nei prossimi tre anni una cifra pari a circa 5 miliardi di euro nel paese balcanico. Anche in questo caso, è Gazprom ad essere trainante per l’accordo: oltre ai lavori – già in corso – per la costruzione del tratto di competenza serbo del gasdotto South-Stream, i rubli in arrivo serviranno per apportare nuove tecnologie e ammodernare le imprese serbe attive nel settore energetico (compreso il ramo eolico), con lo scopo ultimo di fare della Serbia una piattaforma balcanica per la distribuzione di energia e stringendo quindi i legami economici con la Russia, suo fornitore.

Ma se è l’Europa dove Gazprom si rivela essere sempre più protagonista con forniture record[i] e una recente svolta anche nell’immagine che l’azienda vuol dare di sé (da quest’anno sponsorizza, oltre a diverse squadre, anche la massima competizione calcistica europea per club, la Champions League), l’Asia centrale rimane anch’essa fra le priorità di Mosca, a testimoniare che il Grande Gioco sembra non conoscer fine. Con il Kazakhstan già ampiamente membro dell’Unione Doganale e la recente svolta del Turkmenistan a favore della Russia – alla quale ha ceduto i giacimenti di gas che avrebbero dovuto contribuire a riempire il gasdotto d’ispirazione euro-atlantica Nabucco – un altro passo in avanti verso la riconquista dell’ex spazio imperiale è costituito dall’accordo stretto con il Kyrgyzstan: in base ad esso, la repubblica centroasiatica ha ceduto al simbolico prezzo di 1 dollaro la compagnia Kyrgyzgas (con i suoi giacimenti e le sue infrastrutture) a Gazprom, seguendo la cancellazione di 500 milioni di dollari di debito quale premio di Putin dopo la decisione presa dal parlamento di Byshkek di rescindere l’accordo con gli Stati Uniti; i quali dovranno, nel 2014, abbandonare il Paese dopo anni di presenza militare. Si tratta di un primo passo che potrebbe portare col tempo il Kyrgyzstan a divenire membro dell’Unione Doganale, seguendo la strada che ha recentemente deciso d’intraprendere l’Armenia (proprio a discapito dell’UE) e gli auspici nella medesima direzione già espressi a novembre dal Tagikistan, altro stato centroasiatico.

Muovendosi dal cuore dell’Asia verso Est, giungono quest’anno altre notizie che fanno brillare l’astro di Gazprom. In direzione meridionale, spiccano gli storici e sempre più saldi legami con il Vietnam che il presidente Putin non ha dimenticato di enfatizzare nella sua recente visita a Hanoi: con l’interscambio commerciale cresciuto del 20% solo nel 2012 e la collaborazione sul piano energetico più che florida con ben tre joint-venture russo-vietnamite attive nella ricerca di idrocarburi e nella costruzione della prima centrale nucleare vietnamita, le relazioni fra i due paesi sono ai massimi storici con interessanti prospettive per il futuro. Verso Nord-Ovest, invece, è notizia di due giorni fa l’avvio dei lavori per l’oleodotto che avrà il compito di trasportare petrolio dalle regioni settentrionali della Siberia verso la Cina, con il fine di aumentare l’esportazione di idrocarburi verso oriente in risposta al calo della domanda dei clienti europei dovuto alla crisi. L’infrastruttura (la cui costruzione è affidata all’equivalente russa della nostra Saipem, Transneft) sarà completata nel 2016 e trasporterà i prodotti di Gazprom e di altre compagnie russe in Cina, costituendo la seconda rete in questa direzione.

Ulteriori passi in avanti sono stati effettuati dall’Azienda russa guidata da Alexey Miller anche in America latina, nell’ottica di mantenimento e accrescimento dei legami politico-commerciali con determinati paesi. La recente cancellazione del debito, ancora risalente ai tempi dell’URSS, con Cuba – pari a circa 29 miliardi di dollari – a seguito della visita del Primo Ministro russo Medvedev lo scorso febbraio, risponde ad una strategia di ammorbidimento nei confronti di un paese con legami storici, interessi attuali, ma soprattutto importanti scenari futuri: come l’avvio di ricerche per la perforazione da parte di Gazprom dei fondali cubani off-shore alla ricerca di idrocarburi. Poi, un importante accordo strategico – anche in chiave geopolitica – è stato siglato con la Bolivia di Evo Morales, vulcanico presidente dichiaratamente ostile all’ingerenza statunitense nel Sud America e che si è definito “gioioso” per l’ingresso della Russia nell’economia boliviana. Il giacimento in questione, quello di Acero, sarà sfruttato da una joint-venture dove parteciperà anche il gruppo franco-belga Total ma su cui il governo boliviano manterrà la maggioranza. Infine, un considerevole aiuto pari ad un miliardo di dollari, arriverà da Gazprom alla compagnia statale venezuelana PDVSA, attualmente in difficoltà finanziaria e bisognosa sia di iniettare capitali freschi nelle sue casse per aumentare gli investimenti, sia di attirare la competenza che il gigante russo può fornire al fine di sfruttare in maniera appropriata le enormi riserve petrolifere del sottosuolo, da cui l’economia del paese largamente dipende. In cambio del prestito, Gazprom costituirà con la suddetta compagnia una joint-venture per sfruttare alcuni giacimenti nelle regioni occidentali, seguendo un ben preciso disegno politico nei confronti dello stato a cui la Russia è assai legata e che con il neo presidente Maduro sembra voler continuare nella strada intrapresa con coraggio dal defunto Chavez, grande amico di Vladimir Putin.

I passi in avanti compiuti da Gazprom grazie al suo potere energetico, hanno corso quest’anno su di un binario parallelo a quello dei successi conseguiti da Mosca in campo internazionale, decretando definitivamente il 2013 come base per una nuova era in cui la Russia ritorni ad essere ai vertici della politica mondiale. Gli scenari energetici e geopolitici che si prospettano nel 2014 – quali ad esempio le partite che si giocheranno per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi in Grecia e a Cipro, da un lato, e nell’Artico, dall’altro – saranno di notevole interesse e vedranno questa volta, agire sulla scena mondiale, un ritrovato attore di cui il mondo avvertiva la mancanza.




[i] Gazprom fornisce il 25% del gas totale all’Unione Europea, detenendo il monopolio delle forniture di gas in: Bosnia ed Erzegovina, Estonia, Finlandia, Macedonia, Lettonia, Lituania, Moldavia e Slovacchia. Inoltre, vanta un semi-monopolio in Bulgaria, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Turchia; con considerevoli quote di esportazioni in Romania, Germania, Francia e, ovviamente, Italia.

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STEFANO VERNOLE ALL’IRIB: CERTI PAESI MANTENGONO EGITTO NEL CAOS PER INTERESSI DI ISRAELE

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“L’Egitto è il paese in grado di garantire la stabilità in tutto il Medioriente grazie alla sua posizione strategica ed in particolare è in grado di controllare il canale di Suez. È l’unico paese arabo il cui esercito è veramente in grado di rivaleggiare con quello israeliano e ha anche alcuna posizione storica di mediatore tra gli israeliani ed i paestinesi. Quindi ovviamente ci sono delle forze che per motivi sopra citati hanno interesse a mantenere il Medioriente in caos. E così si impedisce all’Egitto di rivaleggiare in maniera concreta e forte con l’Israele.”

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TURCHIA E ARMENIA: UNA RICONCILIAZIONE POSSIBILE?

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Il 13 dicembre 2013 il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu, durante il Vertice di Erevan dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica del Mar Nero, ha definito “un atto inumano” le deportazioni e i massacri degli Armeni del 1915[i]. Nel corso della sua visita nella capitale armena, Davutoğlu ha anche ricevuto un regalo: la versione in lingua turca di un libro che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti di quello che gli Armeni chiamano “il Grande Male”[ii]. Difficile dire se lo leggerà, ma di sicuro le dichiarazioni di Davutoğlu costituiscono una pietra miliare nelle relazioni tra Turchia e Armenia e aumentano considerevolmente le speranze di una riconciliazione.

Il Genocidio Armeno è senza dubbio uno dei principali pomi della discordia tra Turchia e Armenia, se non il principale. Le radici delle controversie sono molto antiche. Agli inizi del Cinquecento, quando la maggior parte dell’Armenia fu conquistata dall’Impero Ottomano, gli Armeni aderivano per la stragrande maggioranza a una Chiesa ortodossa orientale[iii] (in seguito, però, una parte di loro sarebbe tornata in comunione con Roma fondando la Chiesa Armeno-Cattolica). Sotto la Sublime Porta, però, gli Armeni mantennero libertà di culto e di autogoverno e furono posti sotto la giurisdizione di un appositamente creato Patriarcato Armeno di Costantinopoli, ma furono relegati allo status di dhimmi – popolazioni non-musulmane che, in cambio di protezione, venivano sottoposte a un maggiore carico fiscale e private di alcuni diritti.

La relativa tolleranza degli Ottomani fu dovuta al fatto che le loro conquiste non erano tanto finalizzate a favorire la diffusione dell’Islam, quanto piuttosto a espandere il dār al-Islām, ossia il territorio controllato dai Paesi islamici. Anche in virtù della sua scarsa esperienza governativa, l’Impero Ottomano era ben felice di lasciare libertà di culto e di autogoverno alle varie comunità religiose (millet) e di mantenere in vigore gli ordinamenti giuridici preesistenti, accontentandosi di chiedere il riconoscimento della propria supremazia e di imporre un maggiore carico fiscale ai non-Musulmani. I tentativi di conversione forzata all’Islam non mancarono, ma furono rari: i tributi pagati dai dhimmi, dopotutto, erano un’importante fonte di entrate per lo Stato ottomano.

L’esito di questo sistema fu una sostanziale cristallizzazione delle varie comunità religiose, che nei domini della Sublime Porta vivevano fianco a fianco senza mescolarsi tra loro. Gli Armeni, in particolare, mostrarono una particolare resilienza. Tendenzialmente endogami, nel corso dei secoli assunsero un’identità molto forte e basata soprattutto sull’elemento religioso. Per molti la vita era dura a causa della condizione di cittadini di seconda classe, ma non mancarono gli Armeni che fecero fortuna nel commercio, nella finanza e nell’amministrazione ottomana. Uno di loro fu Abraham Pascià (nato Abraham Eramyan), nell’Ottocento importante banchiere e diplomatico ottomano nonché amico personale del Sultano Abdulaziz[iv]. La situazione, però, iniziò a cambiare (e, paradossalmente, in peggio) quando l’Impero Ottomano iniziò il suo giro di boa e le potenze europee iniziarono a esercitare un’influenza sempre maggiore sullo stesso, non solo al fine di ampliare i propri domini ma anche per proteggere la popolazione cristiana sottomessa alla Sublime Porta.

Il 1839 fu l’inizio di un periodo di riforme epocali che presero il nome di Tanzimat. Tra le tante innovazioni, una delle principali fu la parificazione formale dei cittadini dell’Impero Ottomano a prescindere dall’elemento religioso, abrogando i millet e ponendo le basi per la creazione di una comune identità ottomana. Si trattò di uno dei primi passi verso la trasformazione di un impero multinazionale e multiconfessionale in uno Stato nazionale turco, che sarebbe andata definitivamente in porto negli anni Venti con Mustafa Kemal, detto Atatürk (Padre dei Turchi). Molte delle riforme, però, rimasero sulla carta, e l’abolizione del sistema dei millet contribuì a sguinzagliare quelle tensioni interetniche, e soprattutto interreligiose, che fino ad allora erano state sostanzialmente limitate. Tra i Musulmani si diffuse un antiarmenismo sotto vari aspetti speculare a quell’antisemitismo allora diffuso in vari Paesi dell’Europa centrale, mentre gli Armeni dell’Impero Ottomano presero a guardare verso la Russia, che nel corso del secolo strappò agli imperi Ottomano e Persiano il Nagorno-Karabach e le regioni di Erevan e Kars. A partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento le tensioni sfociarono in periodici atti di violenza, e nel 1915 l’avanzata delle truppe russe nell’Impero Ottomano infiammò gli Armeni della regione del Lago Van, oggi nella Turchia Orientale ma all’epoca a maggioranza armena. La reazione ottomana fu violentissima: milioni di Armeni, Assiri e Greci Pontici furono deportati verso la Siria, e centinaia di migliaia, forse milioni, di loro caddero sotto le baionette dell’esercito ottomano[v].

A seguito della Prima Guerra Mondiale fu istituita la Repubblica Democratica Armena, comprendente i territori dell’Armenia Russa ceduti alla Sublime Porta in virtù dei Trattati di Brest-Litovsk e una parte delle aree a forte presenza armena dell’Impero Ottomano. La Repubblica, però, ebbe vita breve: nel 1920, infatti, buona parte dei suoi territori fu riconquistata dalla Turchia, e il resto fu assorbito dall’Unione Sovietica che istituì la Repubblica Socialista Sovietica Armena. I passaggi di mano furono suggellati dal Trattato di Kars del 1921 che, tra le tante cose, sancì il passaggio alla Turchia del Monte Ararat, sacro per gli Armeni in quanto, secondo la tradizione biblica, fu il punto di approdo dell’Arca di Noè, e dell’antica capitale armena Ani. Un ulteriore schiaffo venne dall’assegnazione del Nagorno-Karabach, la cui popolazione era in gran parte armena, alla Repubblica Sovietica Azera in qualità di provincia autonoma. La decisione fu dovuta soprattutto alla volontà del governo sovietico di ingraziarsi la neonata Repubblica Turca (Turchi e Azeri sono etnicamente molto affini). Nella primavera del 1945 l’URSS, da poco uscita vincitrice nella Seconda Guerra Mondiale, chiese la restituzione dei territori ceduti alla Turchia in base ai Trattati di Brest-Litovsk, ma le rivendicazioni non andarono a buon fine, e a seguito della morte di Stalin il governo sovietico vi rinunciò ufficialmente[vi]. La comunità armena in Turchia, nel frattempo, era quasi scomparsa: la maggior parte di coloro che erano scampati ai massacri, infatti, si era assimilata ai Turchi etnici o ai Curdi, magari convertendosi all’Islam, oppure era fuggita in Occidente dove avrebbe dato vita a un’influente diaspora armena.

L’indipendenza dell’Armenia nel 1991 portò alla riapertura di vecchie questioni irrisolte e all’apertura di nuove. Malgrado i due Paesi sembravano inizialmente in grado di instaurare relazioni  produttive (la Turchia fu infatti uno dei primi Paesi a riconoscere l’indipendenza armena e assistette Erevan in un periodo di difficoltà economiche[vii]), il conflitto nel Nagorno-Karabach tra Armenia ed Azerbaigian provocò un deciso peggioramento dei rapporti tra Ankara e Erevan. Mentre l’esercito armeno avanzava nel Nagorno-Karabach ed espelleva dalla regione i membri della minoranza azera (stesso fato toccò agli Armeni residenti in Azerbaigian), il Paese della Mezzaluna, oltre a rifornire di armamenti l’esercito azero, chiuse i propri confini con l’Armenia, istituì un embargo contro il Paese e minacciò persino un intervento militare contro Erevan qualora non avesse abbandonato il Karabach, salvo poi abbassare i toni a seguito della minaccia russa di intervenire a sostegno dell’Armenia[viii]. La politica turca, comunque, riuscì a creare seri problemi economici all’Armenia, e anche se nel 1994 la guerra si concluse con una sostanziale vittoria armena, che ora controllava quasi tutto il Nagorno-Karabach e anche una zona cuscinetto tra l’Armenia e l’ex provincia autonoma azera, il Paese era ormai allo stremo[ix]. Negli anni successivi, comunque, l’Armenia visse una sostanziale ripresa economica, soprattutto grazie al sostegno della Russia e della diaspora.

Negli anni Novanta i rapporti tra Turchia e Armenia rimasero molto tesi. Uno dei maggiori motivi di contrasto riguardava la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), del metanodotto Baku-Tbilisi-Erzurum e della linea ferroviaria Kars-Tbilisi-Baku. Si tratta di vie di comunicazione che collegano la Turchia e l’Azerbaigian passando per la Georgia, e non per un’Armenia che pur si trova lungo la via più diretta, e per questo furono aspramente contestati da Erevan[x]. Da notare che il dirottamento attraverso la Georgia di queste vie di trasporto è dovuto proprio alla continua chiusura dei confini turco-armeni. L’Armenia, inoltre, non ha mai riconosciuto ufficialmente il Trattato di Kars, e sebbene non abbia mai avanzato rivendicazioni ufficiali nei confronti della Turchia, e anzi l’ex Ministro degli Esteri Vardan Oskanyan abbia a suo tempo affermato che “l’Armenia accetta il trattato di Kars”, tanto la Dichiarazione di Indipendenza quanto la Costituzione armena chiamano “Armenia Occidentale” i territori di Kars e di Ardahan[xi]. La Turchia, dal canto suo, oltre a continuare a sostenere l’Azerbaigian sulla questione Karabach, critica la campagna per il riconoscimento del genocidio armeno portata avanti dalle autorità di Erevan e dagli esponenti della diaspora. Un motivo di controversie è poi la questione della centrale nucleare di Metsamor, situata in Armenia a 17 chilometri dal confine turco. Chiuso a seguito del terremoto del 1988 e riaperto negli anni Novanta per ovviare alla scarsità di energia a seguito del blocco turco-azero, l’impianto è obsoleto e si trova sulla lista nera dell’Unione Europea assieme ad altre tre centrali in Bulgaria. Un’eventuale catastrofe, a detta di un docente dell’Università di Ferrara, coinvolgerebbe Turchia, Georgia e Armenia[xii].

L’ascesa del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) nel 2002 è stata seguita da importanti schiarite nei rapporti tra Turchia e Armenia. L’azione del governo di Erdoğan si è contraddistinta per un parziale superamento dell’eredità kemalista tanto attraverso il miglioramento delle relazioni con le principali minoranze etniche e religiose del Paese, quanto per mezzo di una politica estera finalizzata all’instaurazione di relazioni produttive con i propri vicini di casa (la cosiddetta zero problem) e alla creazione di una sua sfera di influenza nei territori un tempo parti dell’Impero Ottomano (neo-ottomanismo). Il Paese non ha comunque abbandonato l’obiettivo di entrare nell’Unione Europea, e paradossalmente l’attuale Turchia moderatamente islamista e imperiale è sotto vari aspetti più “europea” di quella rigidamente nazionalista degli scorsi decenni.

Sul primo fronte va registrato un certo recupero dell’identità culturale degli Armeni residenti in Turchia. Molte testimonianze della millenaria presenza armena nella Penisola Anatolica, dopo decenni di abbandono, sono state oggetto di restauro. Una tra queste è la Cattedrale della Santa Croce, risalente al X secolo e situata in un’isola sul lago Van, che nei primi anni Duemila è stata sottoposta a un rigoroso restauro e nel 2010 riaperta al culto, sebbene per solo un giorno all’anno[xiii]. L’anno dopo, nella non lontana Diyarbakır, la Chiesa di San Ciriaco (Surp Giragos), anch’essa molto antica, è diventata il primo edificio permanentemente aperto al culto armeno dai tempi del Grande Male. In futuro una parte dell’edificio ospiterà un museo armeno[xiv]. Si tratta di gesti piccoli ma notevoli dal punto di vista simbolico, così come simbolicamente notevoli sono state le massicce proteste seguite all’assassinio del giornalista turco di etnia armena Hrant Dink, direttore di Agos, il settimanale della comunità armena costantinopolitana. Il giornalista, pur non dimentico del Grande Male e delle discriminazioni subite dagli Armeni nell’immediato periodo repubblicano, era comunque fautore di una riconciliazione tra Turchi e Armeni. Il suo omicidio ad opera di un ultranazionalista si è rivelato un boomerang: il 24 gennaio 2007, il giorno dei suoi funerali, oltre centomila persone sfilarono per le strade di Istanbul al grido di “Siamo tutti Armeni” e protestando contro il famigerato Articolo 301[xv], in virtù del quale lo stesso Dink era stato condannato per aver “insultato la turchicità” pochi mesi prima del suo assassinio[xvi].

Il sacrificio di Hrant Dink ha senza dubbio costituito uno spartiacque nelle relazioni tra Turchia e Armenia. Sebbene parlare di “genocidio” resta un tabù e il governo continua a negare l’esistenza di un piano per sterminare gli Armeni dell’Anatolia, la coscienza storica dei Turchi sul tema sta aumentando, e il 24 aprile, data di inizio delle deportazioni degli Armeni, viene oggi commemorato nelle principali città turche[xvii]. Sul fronte dei rapporti con l’Armenia, poi, si sono registrate delle forti schiarite. Nel 2008 il Presidente turco Abdullah Gül è stato il primo politico turco di alto livello a visitare l’Armenia, in occasione dell’incontro tra Turchia e Armenia per le qualificazioni per i Mondiali del 2010, e l’anno dopo Ankara e Erevan hanno firmato un memorandum d’intesa per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. La road map prevedeva concessioni da entrambe le parti: la Turchia avrebbe rinunciato a vincolare la normalizzazione dei rapporti col suo vicino armeno alla restituzione del Karabach all’Azerbaigian, e Erevan, in cambio, avrebbe riconosciuto il Trattato di Kars e rinunciato alla sua campagna internazionale per il riconoscimento del genocidio armeno, acconsentendo alla creazione di una commissione turco-armena per lo studio della questione[xviii].

Il protocollo d’intesa, però, è sostanzialmente rimasto sulla carta, e gli anni successivi sono stati caratterizzati da un sostanziale peggioramento dei rapporti tra i due Paesi. Nel 2010 il Parlamento armeno ha sospeso la ratifica del protocollo d’intesa, dopo che la controparte turca aveva nuovamente vincolato la stessa alla risoluzione della disputa sul Nagorno-Karabach[xix], e nel giugno del 2013 il Procuratore Generale di Erevan è giunto a chiedere la restituzione dei territori ceduti alla Turchia a seguito del Trattato di Kars, delle Chiese armene situate in territorio turco e compensazioni per i discendenti delle vittime del Genocidio[xx]. Dichiarazioni che però non hanno realmente compromesso un processo di distensione che sembra irreversibile, come dimostrato dalle recenti dichiarazioni di Davutoğlu.

Un’eventuale normalizzazione delle relazioni turco-armene produrrebbe vantaggi soprattutto a Erevan. La mai realmente terminata guerra con l’Azerbaigian e il costante blocco turco fanno dell’Armenia un Paese parzialmente isolato. Gli unici collegamenti via terra col resto del mondo passano attraverso la Georgia e l’Iran, e anche qui non mancano i limiti: nel primo caso la chiusura dei confini tra Russia e Georgia, nel secondo la natura aspra e accidentata della regione di confine tra Armenia e Iran. La strada che congiunge i due Paesi non è propriamente l’Autostrada del Brennero, e la costruzione della linea ferroviaria tra i due Paesi, che pure sta suscitando un certo interesse da parte di società russe, iraniane e cinesi, è ancora in fase di appalto[xxi]. L’Armenia, quindi, trarrebbe benefici notevoli dall’eventuale riapertura dei confini con la Turchia, sia in quanto le consentirebbe un accesso più rapido ai mercati di Russia ed Europa, sia perché così potrebbe ridurre la sua forte dipendenza da Mosca. Un altro stimolo per l’Armenia a ristabilire piene relazioni con la Turchia viene dall’immigrazione. Oggi in Turchia vivono 170.000 Armeni etnici, e se settantamila sono i reduci del Grande Male e della diaspora che sono rimasti in Turchia e hanno ottenuto la cittadinanza turca, gli altri sono immigrati irregolari, perlopiù donne impiegate come domestiche e badanti. La loro presenza nella Turchia del boom economico è sostanzialmente accettata, ma la loro posizione li rende facilmente strumentalizzabili, come dimostrano le dichiarazioni con cui, nel 2010, il premier turco Erdoğan ha minacciato di rimpatriare gli irregolari qualora l’Armenia avesse continuato la sua campagna per il riconoscimento del Genocidio Armeno[xxii]. Le tensioni, però, si sono successivamente stemperate, e nel 2011 i circa mille figli degli immigrati irregolari hanno ottenuto il permesso di frequentare le scuole in lingua armena del Paese della Mezzaluna[xxiii]. Infine c’è la questione degli scambi commerciali: se il mercato armeno è sostanzialmente aperto ai produttori turchi, che nel 2008 hanno esportato verso l’Armenia beni dal valore complessivo di 260 milioni di dollari, in Turchia le merci armene sono sottoposte ad embargo, e questo proprio mentre l’economia turca sta vivendo una fase di forte crescita economica[xxiv].

Per la Turchia, però, i benefici sono tutt’altro che irrilevanti. Questi riguardano soprattutto l’arena internazionale: due dei maggiori prerequisiti posti dall’UE per l’ammissione della Turchia, infatti, sono la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia e il riconoscimento del Genocidio del 1915. La pacificazione turco-armena, inoltre, contribuirebbe non poco alla stabilizzazione di una regione tradizionalmente turbolenta come il Caucaso, e non è un caso che la Guerra in Georgia del 2008 abbia dato un forte impulso alla normalizzazione. Ma anche i benefici di carattere economico non sono da sottovalutare. Per comprenderlo basta andare a Kars, una città di provincia nei pressi del confine con Georgia e Armenia. Un tempo una delle città più aperte della Turchia, i cui abitanti (o almeno i più abbienti) avevano ereditato dalla passata dominazione russa la passione per il balletto e le cene a base di caviale e champagne, oggi però spicca per la sua povertà. La rivitalizzazione della città passa attraverso la riapertura dei confini, e una delle maggiori opportunità è offerta dal turismo armeno, in particolare di quello della diaspora. Non lontano da Kars, sul lato turco del fiume che segna il confine del Paese con l’Armenia, si trovano infatti le rovine di Ani, una potenziale mecca per i circa duecentomila Armeni della diaspora che ogni anno si recano nella loro terra ancestrale. Per raggiungere il sito dall’Armenia, però, è necessario un lungo viaggio attraverso la Georgia, e ciò è chiaramente una grossa ipoteca nei confronti dello sviluppo turistico dell’area. Secondo l’ex sindaco di Kars Naif Alibeyoğlu, però, le opportunità non si limitano ai milioni di dollari di nuovi introiti: i turisti, infatti, “conoscerebbero dei Turchi e scoprirebbero che non sono malvagi come immaginavano”[xxv]. Aprendo quindi nuovi spiragli di pace.

Malauguratamente, però, gli uomini non sono fatti di sola ragione, e per quanto Turchia e Armenia possano impegnarsi è difficile che, almeno sul breve termine, le ragioni pragmatiche possano avere la meglio su quelle emotive. Tanto il genocidio, quanto la disputa del Karabach hanno una forte valenza emotiva, e non c’è da stupirsi se i nazionalisti di entrambe le parti abbiano espresso forti accuse ai loro governi a seguito dell’Accordo del 2009. L’orgoglio turco porta a respingere le accuse di genocidio e ad affermare che gli Azeri del Karabach sono stati vittime di un “genocidio”, quando il termine giusto sarebbe al più “pulizia etnica”[xxvi]. Il rancore armeno, a sua volta, rende spesso oggetto di critica anche chi fa un semplice viaggio in Turchia[xxvii]. Per quest’ultima, poi, c’è l’ostacolo dell’apparato militare, da sempre massimo difensore dei valori kemalisti e quindi, tra le tante cose, particolarmente ostile verso il revisionismo storico e la conciliazione con le minoranze, siano esse i Curdi o ciò che resta delle antiche comunità cristiane. Significativo, sotto questo punto di vista, è il caso dell’organizzazione segreta Ergenekon (dal nome della leggendaria montagna da cui provengono i popoli altaici), responsabile di una serie di omicidi, tra cui quello di Hrant Dink, e di denunce e di minacce ad una serie di personalità che avevano “insultato la turchicità”, ossia parlato apertamente del Genocidio o della condizione delle minoranze. Nell’agosto 2013 i membri dell’organizzazione hanno subito severe pene detentive, e i suoi capi condannati all’ergastolo[xxviii]. Questi atti, però, saranno destinati a ripetersi se non si chiudessero una volta per tutte le porte al nazionalismo, e ciò è di gran lunga più difficile che non mettere dietro le sbarre i membri di un’organizzazione eversiva.

Resta da capire chi vincerà la sfida, che sembra essere quella della resistenza ad oltranza. Oggi i punti di forza della Turchia sono un’economia in costante crescita, una certa solidarietà da parte dei Paesi islamici e gli interessi strategici dell’Occidente, sia quelli legati agli idrocarburi sia il contenimento della rinascente Russia e dell’islamismo radicale; l’Armenia, invece, può contare sulla solida alleanza con la Russia, su un’influente diaspora e sulla solidarietà da parte di molti intellettuali occidentali. Sarà innanzi tutto la geopolitica, quindi, a stabilire se e come i due Paesi ristabiliranno normali relazioni.




[iii] Le Chiese ortodosse orientali (dette anche Chiese orientali antiche per evitare confusioni con la Chiesa Ortodossa propriamente detta) sono quelle Chiese che riconoscono soltanto la validità dei primi tre concili ecumenici. Esse sono, nello specifico, la Chiesa Ortodossa Assira, la Chiesa Apostolica Armena e le Chiese Copte egiziane ed etiopi.

[v] D. Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York/Londra 2011, p. 70.

[ix] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 444.

[xv] L’Articolo 301 è un articolo del Codice Penale turco che prevede pene detentive fino a tre anni per chiunque offenda pubblicamente la turchicità, le istituzioni turche o le maggiori cariche dello Stato. L’articolo è stato usato diverse volte per mettere sotto accusa chi parlava pubblicamente di “genocidio” armeno (tra i casi celebri, oltre a quello di Hrant Dink, vanno ricordati il Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk e la scrittrice Elif Şafak). Nel 2008, però, l’articolo è stato fortemente mitigato sostituendo “turchicità” con “nazione turca” e introducendo l’obbligo dell’approvazione del Ministro della Giustizia.

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IL SECOLO CINESE?

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È uscito il numero XXXII (4-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

IL SECOLO CINESE?

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

 

EDITORIALE

IL SECOLO CINESE? di Claudio Mutti

 

 

GEOFILOSOFIA

HEGEL E IL FONDAMENTO GEOGRAFICO DELLA STORIA MONDIALE di Davide Ragnolini*

All’interno delle «Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte» del grande filosofo tedesco la riflessione sulla base geografica della storia mondiale trova una significativa collocazione propedeutica alla stessa storia filosofica del mondo, la cui importanza non è stata ancora sufficientemente colta. Hegel poneva a fondamento dello svolgimento storico mondiale il rapporto tra i popoli e la condizione naturale nella quale questi hanno localizzazione. Secondo l’impostazione storico-idealistica di Hegel, tempo e spazio hanno nella storia e geografia universale il loro correlato fenomenico dal quale i popoli avviano la propria esistenza. Da un punto di vista filosofico il rapporto tra spirito e natura costituisce la struttura teoretica portante su cui Hegel basa l’emancipazione di un popolo dalla condizione di mero «ente naturale» a soggetto storico all’interno della storia mondiale. Dal geografo e collega Carl Ritter,il filosofo tedesco ha tratto i princìpi interpretativi per la comprensione delle possibilità di sviluppo che le differenze geografiche offrono ai popoli, la rappresentazione geologica della superficie terrestre, la sua divisione in continente euroafrasiatico ed aree insulari, e infine la contrapposizione tra terra e mare. Questi rappresentano solo alcuni dei molti aspetti della geografia hegeliana, forieri di sviluppi successivi per la teoria geopolitica. 

 

 

DOSSARIO: IL SECOLO CINESE?

LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE: PROFILO E RISORSE a cura della Redazione

La Cina oggi: una panoramica dei dati essenziali e delle dinamiche in atto contribuisce alla comprensione della più grande realtà asiatica.

 

LA NUOVA VIA DELLA SETA di Qi Han

La signora Qi Han è incaricata d’Affari dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia. “Eurasia” la ringrazia per aver gentilmente concesso di pubblicare il testo del discorso da lei pronunciato in occasione del Forum Eurasiatico di Verona (17-18 ottobre 2013). 

 

RITORNO ALLA VIA DELLA SETA di Giuseppe Cappelluti

 Dal mito alla realtà. Dopo secoli di oblio la Via della Seta, storico ponte tra l’Occidente e la Cina, sta tornando ad essere una direttrice primaria del commercio internazionale. Lungo i suoi itinerari si è tuttavia prefigurata l’ennesima disputa tra eurasiatismo ed euro-atlantismo: da un lato il percorso attraverso Russia e Kazakistan, più rapido e stimolato dal rafforzamento dell’integrazione eurasiatica, dall’altro quello attraverso il Caucaso e il Mar Caspio voluto dall’Unione Europea.

 

LA CINA PER UN ORDINE MULTIPOLARE di Spartaco A. Puttini

 L’ascesa della Cina si è imposta come una realtà della quale tener conto, in tutte le dimensioni proprie della geopolitica. Ma per coglierne la portata e le conseguenze per la vita internazionale occorre collocarla in un contesto preciso: quello attualmente attraversato dalle relazioni internazionali e caratterizzato dal braccio di ferro in corso tra il tentativo statunitense di imporre al mondo il proprio “dominio a pieno spettro” e l’emergere di un equilibrio di potenza multipolare. Nelle righe che seguono cercheremo di dare sommariamente conto dell’azione politica della Cina popolare su diverse scacchiere (dall’America Latina all’Africa) evidenziandone finalità ed effetti. Di particolare rilievo risulta l’impulso dato allo sviluppo dei rapporti economici Sud-Sud con mutuo beneficio, che promettono di erodere il potere ricattatorio esercitato dalle centrali finanziarie legate all’Angloamerica nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Si accennerà al complesso rapporto che viene a stabilirsi concretamente tra l’aspirazione cinese ad una crescita armonica e pacifica e il vincolo sistemico indotto dagli Stati Uniti con la corsa agli armamenti e con il susseguirsi di gravissimi crisi regionali che contribuiscono ad attizzare le tensioni tra le Potenze.                         

 

 LA SECONDA PORTAEREI CINESE di Andrea Fais

La crescita della potenza economica cinese ha avuto principalmente due ripercussioni internazionali. L’una, di carattere commerciale, sta già modificando le dinamiche dei flussi di capitale nel pianeta ed è quella più dibattuta dalla stampa europea ma troppo spesso accentuata, se non deformata da giudizi raramente in sintonia con la realtà dei fatti. L’altra, di carattere strategico, mantiene ritmi di trasformazione più lenti, non tanto per il ritardo con cui la Repubblica Popolare Cinese è giunta ad affrontare nel concreto i temi salienti della guerra informatica e della modernizzazione militare quanto piuttosto per l’enorme potenziale accumulato dal Pentagono nel decennio compreso tra il 1998 e il 2007. Eppure dal momento che le dimensioni commerciale e militare sono interdipendenti, all’inversione di tendenza nella prima potrebbe presto seguirne un’altra nella seconda. Il debutto della prima portaerei cinese, la Liaoning, nel settembre 2012 aveva lanciato un dado sul tavolo: la sfida a quello strapotere aeronavale statunitense che, assieme al primato internazionale del dollaro, costituisce l’architrave dell’egemonia nordamericana sul resto del mondo.

 

LA TRIADE NUCLEARE DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE di Alessandro Lattanzio

L’arsenale strategico cinese è oggetto di varie congetture. Qui viene presentato un quadro sintetico delle varie stime relative all’arsenale nucleare, dovute ai più importanti enti occidentali di analisi strategica.

 

GLI ALTRI PARTITI NELLA CINA POPOLARE di Giovanni Armillotta

 Le origini, la storia e l’organizzazione dei partiti democratici. Le lotte comuni assieme ai comunisti nell’epopea della liberazione contro i giapponesi, e nella guerra civile nel periodo della dittatura del Guomindang. La collaborazione di essi col Partito Comunista Cinese nell’amministrazione del Paese e le rappresentanze dei partiti indipendenti nelle alte istituzioni statali. Paralleli col sistema partitico della nostra Italia 1945-1994. Nell’articolo è adottato il sistema di traslitterazione Pinyin di nomi e toponimi.

 

LA  QUINTA GENERAZIONE AL POTERE di Sara Nardi

Negli ultimi anni il problema dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa si è fatto stringente anche in Cina. Come seconda potenza mondiale e come nazione pienamente inserita nel processo di globalizzazione economica e digitale, il colosso asiatico è ormai entrato sotto la lente d’ingrandimento della famigerata osservazione internazionale. Si tratta di una realtà complessa, che spesso risente delle contraddizioni o delle forzature che il punto di vista politico e geografico dell’osservatore reca necessariamente con sé. Tuttavia, è stato lo stesso Xi Jinping ad annunciare un piano di riforme che risolvano in modo più efficace le complicate questioni legate alla corruzione, agli intrecci impropri tra politica e stampa e alla regolamentazione della rete multimediale. Una sfida da cui dipende l’immagine della Cina nel mondo e, dunque, la sua capacità di guadagnare legittimazione e consenso internazionali.

 

HUKOU. LA RESIDENZA IN CINA di Maria Francesca Staiano

La RPC è caratterizzata da un sistema di registrazione permanente della residenza (Hukou) che esclude i residenti non regolari, soprattutto i lavoratori migranti, dal godimento delle prestazioni sociali, come l’accesso ai servizi di istruzione, di sanità, di previdenza sociale e di sicurezza sul lavoro. Ciò ha generato una divaricazione netta tra la popolazione urbana e i migranti che provengono dalle zone rurali. Il sistema dello Hukou deriva da una tradizione storica-culturale antica ed è stato modificato varie volte dal Governo cinese. Oggi, la questione dello Hukou è nell’agenda del terzo plenum del Partito Comunista della RPC e quanto mai attuale. La Cina si trova ad affrontare la sfida di un esercito di lavoratori migranti che, sostenendo l’economia cinese, pretendono gli stessi diritti dei cittadini urbani.

 

MYANMAR: UNA PARTITA ANCORA APERTA? di Stefano Vernole

Lo “sdoganamento” del Myanmar apparentemente favorisce l’intrusione occidentale nell’area del Sud-Est asiatico, ma la stabilizzazione dell’ex Birmania è funzionale agli interessi di sicurezza della Cina. La strategia geoeconomica del PCC appare ancora una volta vincente. Il secolo asiatico vedrà Pechino protagonista?

 

LA CINA IN ROMANIA di Luca Bistolfi

La Cina è vicina, e molto, anche in Romania. Da anni ormai, semplici cittadini, operai, imprenditori e multinazionali di servizi e infrastrutture provenienti dalla Città Proibita hanno adottato il Paese carpatico quale meta di investimenti a lunga durata. Nel bellum omnium contra omnes i romeni se ne vanno dal loro Paese e ad esser assunti sono i cinesi, sempre più a basso costo e non meno sfruttati. Un risultato, fra i tanti, è che anche le aziende italiane, andate per suonare, sono state suonate. Sempre dai cinesi. E la Romania, ancora una volta, piange.

 

IL TURISMO CINESE DEL XXI SECOLO di Ornella Colandrea

Negli ultimi tre decenni, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato politiche e misure che, modificando fortemente la struttura socioeconomica del paese, hanno inaugurato una fase di costante crescita economica. La Cina rappresenta oggi un interessante mercato in  crescente espansione in cui il turismo costituisce uno dei fulcri centrali dell’industria nazionale. Il mercato turistico cinese rappresenta una grande opportunità per l’Europa e per il sistema di offerta italiano in particolare. L’articolo analizza i dati, i ritmi di sviluppo, le tendenze, i profili dei turisti cinesi, individuando criticità e opportunità.

 

IL TURISMO CINESE IN ITALIA di Elena Premoli

Affari, ma non solo: anche più tempo libero, voglia di esplorare il mondo, curiosità sempre crescente, desiderio di evasione, necessità di staccarsi dalla frenetica vita delle grandi megalopoli asiatiche. E, soprattutto, maggiore disponibilità economica. Sono questi alcuni fattori che stanno alla base di un fenomeno  sempre in crescita e che sta raggiungendo cifre davvero importanti. Si tratta del turismo cinese, dei viaggi interni alla Cina o all’estero che sempre più abitanti della Terra di Mezzo decidono di compiere per piacere.  Dove si posiziona il nostro Paese all’interno di questa filiera? Quali passi sono stati già compiuti, da quali sbagli è bene trarre insegnamento e quali piccole accortezze sono richieste agli operatori del settore per accogliere al meglio gli ospiti in arrivo dalla Repubblica Popolare? L’articolo offre un breve excursus sull’evoluzione del fenomeno turistico, andando alle radici della pratica del viaggiare per poi arrivare velocemente ai giorni nostri. Espone alcune cifre che definiscono un’idea generale del fenomeno e si chiude con uno sguardo particolare su quanto è possibile fare per trarre maggiori guadagni da tale tendenza, impossibile da trascurare.

 

LA RICEZIONE DI CARL SCHMITT IN CINA di Davide Ragnolini

La recente traduzione in cinese delle opere del giurista tedesco e la crescita delle pubblicazioni dedicategli in Cina rappresentano un elemento di novità sotto un duplice punto di vista. Da un lato contribuiscono sul piano ermeneutico ad arricchire la storia della ricezione della filosofia schmittiana del diritto sotto un più generale aspetto teoretico-dottrinale nel dibattito scientifico mondiale; dall’altro, queste pubblicazioni sono rilevanti come inedita introduzione di un autore europeo ormai classico all’interno della specificità politico-culturale della più grande nazione asiatica. Un recente saggio di Qi Zheng fornisce una panoramica su questo dibattito scientifico in Cina e al contempo ci dà la possibilità di intravedere i limiti attuali della ricezione cinese di un pensatore che, come spiega la stessa Qi Zheng, come nessun altro ha causato tante controversie in Cina.

 

 

CONTINENTI

GLOBALIZZAZIONE: DEFINIZIONE E CONSEGUENZE di Cristiano Procentese

La globalizzazione costituisce il fenomeno più rilevante degli ultimi decenni: ingrediente ormai irrinunciabile di ogni riflessione, rimane, ciononostante, un concetto ancora generico e impreciso. Tuttavia, dopo le apologetiche profezie dei sostenitori della globalizzazione, il risultato degli ultimi anni è  stato un modello di sviluppo che ha come componente intrinseca l’accentuazione delle diseguaglianze, la precarizzazione del lavoro ed il senso d’insicurezza dei cittadini. La crescita incontrollata della speculazione finanziaria, la delocalizzazione delle imprese, che diventano multinazionali o transnazionali, e l’impotenza dei governi nazionali nel gestire un fenomeno così complesso, sono le priorità cui la politica, riappropriandosi delle proprie prerogative, dovrebbe cercare di dare una risposta.

 

LA LETTONIA VERSO L’EURO di Giuseppe Cappelluti

Il 1 gennaio 2014 sarà una data storica per la Lettonia: il Paese baltico, infatti, diventerà il diciottesimo membro di Eurolandia. Per ragioni sia economiche sia geopolitiche (la volontà di sancire l’appartenenza all’Occidente in funzione antirussa) l’adozione dell’euro è stata uno dei principali obiettivi del governo di centrodestra, ma il Paese è tutt’altro che entusiasta. L’accettazione della Lettonia nell’Eurozona, dopo tutto, è stata vincolata all’adozione di rigide misure di austerità, e non manca chi, memori dei cinquant’anni di occupazione sovietica, teme per la propria sovranità nazionale. Alcuni economisti, d’altro canto, non vedono di buon occhio alcuni provvedimenti recentemente approvati in materia fiscale e temono che il Paese si trasformi in un ponte verso i paradisi fiscali, o peggio che diventi esso stesso un paradiso fiscale.

 

LE MANI SULL’ASIA CENTRALE di Giuseppe Cappelluti

La Cina è oggi uno dei maggiori interlocutori commerciali degli “stan” dell’Asia Centrale, e i suoi interessi nell’area sono in forte crescita. Emblematici delle strategie geopolitiche di Pechino verso il Centrasia sono i rapporti con Kazakhstan e Kirghizistan. Se fino a poco più di vent’anni fa la Cina era totalmente assente dagli orizzonti kazachi, la sempre più massiccia presenza cinese nell’economia dell’Aquila della Steppa, non più limitata al tradizionale settore degli idrocarburi, ne ha fatto uno dei più importanti partner commerciali e strategici. Inoltre, pur non mancando timori per un possibile boom dell’immigrazione cinese, gli interessi tra i due Paesi sono reciproci, a partire dalle questioni legate alla sicurezza e dalle nuove infrastrutture che collegheranno Cina e Russia attraverso il Kazakhstan. Il Kirghizistan, al contrario, interessa essenzialmente per la sua posizione geografica, mentre la sua futura adesione all’Unione Doganale non è propriamente una buona notizia per quello che un tempo fu il Celeste Impero. Ma nei due Paesi le mosse cinesi suscitano non pochi sospetti: legittimi interessi o espansionismo geoeconomico?

 

LA GUERRA CIVILE DEL TAGIKISTAN (1992-1997) di Andrea Forti

Nonostante la durata, cinque anni, e l’elevato numero di vittime (dai cinquanta ai centomila morti) la guerra civile del Tagikistan rimane, agli occhi del grande pubblico occidentale (e non solo), uno dei conflitti meno conosciuti del convulso periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, oscurato dai contemporanei ma ben più mediatici conflitti nella ex-Jugoslavia, in Algeria o in Somalia. La guerra civile tagica, nonostante l’oblio che ormai circonda questa drammatica pagina di storia, è di grande interesse sia per lo studio dei conflitti nati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica che per eventuali comparazioni con conflitti attualmente in corso, come quello in Siria che oppone le forze governative alla ribellione islamista.

 

COMUNITÀ RELIGIOSE IN SIRIA di Vittoria Squillacioti

La Siria odierna è un paese complesso dal punto di vista etnico e religioso. Per comprendere quali siano effettivamente le differenze che caratterizzano la sua popolazione è necessario tenere presente le variabili della lingua, della confessione religiosa e dell’eventuale collocazione geografica delle diverse comunità, tre variabili che agiscono profondamente nella definizione delle diverse identità e appartenenze. Nel variegato mosaico siriano riscontriamo così la presenza dominante dei musulmani, ancorché suddivisi tra sunniti, sciiti, ismailiti, alawiti, drusi e yazidi, ma anche diverse varietà del cristianesimo ed una comunità ebraica.

 

ARABIA SAUDITA: ALLEANZE ESTERE E DINAMICHE INTERNE di Sara Brzuszkiewicz

In seguito al deciso rifiuto da parte dell’Arabia Saudita del seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per il quale era stata eletta come membro non permanente, ci si interroga sugli attuali rapporti del Regno dei Saud con storici alleati, rivali di sempre e timido dissenso interno, per scoprire che, nonostante a prima vista possa sembrare il contrario, il vento del cambiamento è ancora lontano dalla Culla dell’Islam.

 

IL TAGLIO DELL’ISTMO DI SUEZ di Lorenzo Salimbeni

Nel novembre del 1869 venne inaugurato il Canale di Suez. Ci era voluto quasi un decennio di massacranti lavori per portare a compimento quest’opera ciclopica, dopo che già in fase di progettazione non erano mancate le polemiche. La necessità di mettere in collegamento il Mar Mediterraneo ed il Mar Rosso era chiara a tutti, ma la modalità con cui conseguire tale obiettivo era oggetto di discussione. Vi fu chi propose di aprire un canale fra il Mar Rosso ed il delta del Nilo (come era già stato fatto all’epoca dei Faraoni e della dominazione araba dell’Egitto), chi insistette per un collegamento ferroviario Alessandria-Il Cairo-Mar Rosso e chi spinse per tagliare l’istmo di Suez, anche se si riteneva che fra i due mari vi fosse un dislivello di alcuni metri che avrebbe richiesto la costruzione di complesse chiuse. La Compagnia Universale del Canale di Suez presieduta dallo spregiudicato Ferdinand de Lesseps, il genio ingegneristico di Luigi Negrelli e l’iniziale opposizione britannica furono i soggetti più importanti nella fase iniziale dell’ambiziosa opera di scavo.

 

 

INTERVISTE

TUCCI IN ORIENTE. L’AVVENTURA DI UNA VITA. INTERVISTA A ENRICA GARZILLI (a cura di Andrea Fais)

Enrica Garzilli è, dal 1995, direttrice delle riviste accademiche “International Journal of Sanskrit Studies” e “Journal of South Asia Women Studies”. È stata quindi Research Affiliate al P.G.D.A.V. College, una delle più antiche istituzioni dell’Università di Delhi. Dal 1991 al 2011 ha vinto la Senior Fellowship presso il Center for the Study of World Religions dell’Università di Harvard (1992–94), ha compiuto quattro anni di studi post-laurea in storia, informatica e giurisprudenza, ha insegnato come Lecturer di sanscrito all’università di Harvard e servito come direttore editoriale della Harvard Oriental Series-Opera Minora, è stata Visiting Researcher alla Harvard Law School (1994–96) e docente presso le università di Macerata, Perugia e Torino. Collabora in qualità di esperta alla RSI – Radiotelevisione Svizzera e a riviste e giornali italiani.

 

“GLOBAL TIMES”: UNO STRUMENTO DI DIALOGO. INTERVISTA A LI HONGWEI (a cura di Andrea Fais)

Li Hongwei è caporedattore dell’edizione in lingua inglese del quotidiano di approfondimento cinese “Global Times”. Fondato nel 1993 dall’editore del “Quotidiano del Popolo”, il “Global Times” ha raggiunto una popolarità internazionale a partire dal 2009, quando fu lanciata l’edizione in lingua inglese che ha raggiunto i lettori di tutto il mondo, accreditandosi come riferimento imprescindibile per conoscere analisi e opinioni della società cinese. La presente intervista è stata rilasciata ad Andrea Fais, collaboratore di “Eurasia” e di “Global Times”.

 

 

RECENSIONI

Luciano Pignataro, La Cina contemporanea da Mao Zedong a Deng Xiaoping (1949-1980) (Andrea Fais)

Tiziano Terzani, Tutte le opere (Stefano Vernole)

Carlo Terracciano, L’Impero del Cuore del Mondo (Andrea Fais)

Massimo Cacciari, Il potere che freno (Claudio Mutti)

 

 

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Il secolo cinese?

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SOMMARIO

 

Editoriale 

C. Mutti, Il secolo cinese?

 

Geofilosofia
Davide Ragnolini, Hegel e il fondamento geografico della storia mondiale

 
Dossario – Il secolo cinese?
Redazione, La Repubblica Popolare Cinese: profilo e risorse
Qi Han, La nuova Via della Seta
Giuseppe Cappelluti, Ritorno alla Via della Seta
Spartaco Alfredo Puttini, La Cina per un ordine multipolare
Andrea Fais, La seconda portaerei cinese
Alessandro Lattanzio, La triade nucleare della Repubblica Popolare Cinese
Giovanni Armillotta, Gli altri partiti nella Cina Popolare
Sara Nardi, La quinta generazione al potere
Maria Francesca Staiano, Hukou. La residenza in Cina
Stefano Vernole,  Myanmar: una partita ancora aperta?
Luca Bistolfi, La Cina in Romania
Ornella Colandrea, Il turismo cinese del XXI secolo
Elena Premoli, Il turismo cinese in Italia
Davide Ragnolini, La ricezione di Carl Schmitt in Cina

Continenti
Cristiano Procentese, Globalizzazione: definizioni e conseguenze
Giuseppe Cappelluti, La Lettonia verso l’euro
Giuseppe Cappelluti, Le mani sull’Asia centrale
Andrea Forti, La guerra civile del Tagikistan (1992-1997)
Vittoria Squillacioti, Comunità religiose in Siria
Sara Brzuszkiewicz, Arabia Saudita: alleanze estere e dinamiche interne
Lorenzo Salimbeni, Il taglio dell’istmo di Suez

 Interviste
Tucci in Oriente. L’avventura di una vita. Intervista a Enrica Garzilli  (Andrea Fais)
“Global Times”: uno strumento di dialogo. Intervista a Li Hongwei (Andrea Fais)

Recensioni
Luciano Pignataro, La Cina contemporanea da Mao Zedong a Deng Xiaoping (1949-1980) (Andrea Fais)
Tiziano Terzani, Tutte le opere (Stefano Vernole)
Carlo Terracciano, L’Impero del Cuore del Mondo (Andrea Fais)
Massimo Cacciari, Il potere che frena (Claudio Mutti)

 

 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

 

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IL SECOLO CINESE?

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Sommario del numero XXXII (4-2013)

 
 
“Il prossimo scontro sarà tra gli Stati Uniti e la Cina” (Lionello Lanciotti, Dove va la civiltà cinese?, Roma 2005, p. 28).

 

Nel loro famoso libro sulla “guerra senza limiti”, Qiao Liang e Wang Xiangsui hanno indicato come “operazioni di guerra non militari”1 alcuni generi non convenzionali di conflitto che caratterizzano gli scontri attualmente in atto nella realtà internazionale: la guerra commerciale, la guerra finanziaria, la nuova guerra terroristica, la guerra ecologica.

A queste nuove forme di guerra sarebbe il caso di aggiungerne un’altra, configurabile come una dinamica geopolitica che contribuisce a spostare definitivamente verso l’Eurasia il baricentro del potere mondiale: la guerra dell’oro.

Secondo William Kaye, un ex della Goldman Sachs che gestisce fondi finanziari a Hong Kong, “la Cina possiede tra 4.000 e 8.000 tonnellate di oro fisico. Non solo i Cinesi sono i più grandi produttori di oro, ma sono anche i maggiori importatori di oro al mondo. La Cina accumula in maniera rapida e massiccia l’oro estirpato all’Occidente. (…) Penso che la Cina non abbia terminato di accumulare oro. Dai forzieri occidentali ne è uscito molto, lo hanno ammesso le grandi banche centrali: la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra”. Kaye afferma che l’oro della Federal Reserve è diventato proprietà della Banca Popolare Cinese e, in parte, anche della Reserve Bank of India e della banca centrale russa. “Nei forzieri della Federal Reserve – dice – non c’è più nulla”2.

L’eventualità che la Cina riprenda il suo ruolo di grande potenza mondiale ossessiona da tempo la classe politica statunitense. A Richard Nixon, che normalizzò i rapporti degli Stati Uniti d’America con la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”3.

Al “secolo americano” ormai tramontato non seguirà il “nuovo secolo americano” progettato dai vari Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Zalmay Khalilzad ecc. Che al “secolo americano” stia per subentrare un “secolo cinese” è timore ormai ampiamente diffuso negli ambienti atlantisti. In un dibattito di due anni fa che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger è il biografo ufficiale, Niall Ferguson, ha detto: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”4.

Ci pare interessante la frase con cui l’ex segretario di Stato nordamericano ha replicato al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale”5 – dove “visione universale” va naturalmente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consista il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli ha data nel corso di un’intervista del 2011: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. E’ possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”6. Kissinger infatti esclude, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”7.

La difficoltà di praticare una politica che si limiti a “contenere la Cina” ha favorito la nascita di un’altra concezione strategica: quella che gli analisti della Rand Corporation, unendo i termini containment ed engagement, hanno denominata congagement. Il senso di questa strategia venne così enunciato una quindicina d’anni fa da uno dei suoi teorici, Zalmay Khalilzad, che era stato ambasciatore in Iraq e in Afghanistan nonché consigliere del Segretario della Difesa Rumsfeld: “Se la Cina opta per la cooperazione con l’attuale sistema internazionale e diventa progressivamente democratica, allora questa politica evolverà in un mutuo partenariato. Se invece la Cina diventa una potenza ostile e interessata all’egemonia regionale, allora la nostra posizione evolverà nel containment8.

In ogni caso, gli strateghi statunitensi dovrebbero aver preso atto che un attacco frontale contro la Cina sarebbe destinato all’insuccesso. Come ha avvertito Jordis von Lohausen, “i tentativi di intrusione economica o militare – la sua estensione è troppo vasta – non possono nulla contro di essa. Essa è di un’altra razza e di una cultura antica, di gran lunga più antica. La Cina ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”9.

 

 

Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”.

 

 

1. Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, a cura del Generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, p.80.
2. www.rischiocalcolato.it/2013/11
3. AA. VV., Il XXI secolo appartiene alla Cina?, Mondadori, Milano 2012, p. 12.
4. AA. VV.,  op. cit., p. 12.
5. AA. VV., op. cit., p. 23.
6. Conversazione di John Geiger con Henry Kissinger, in: AA. VV., op. cit., p. 74.
7. H. Kissinger, Cina, Mondadori, Milano 2011,  pp. 441-442.
8. Zalmay Khalilzad, Congage China, IP-187, Rand Corporation, Santa Monica 1999.
9. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.

 

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LA VIA DELLA SETA 2.0

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Con la fine della Guerra Fredda, le teorie dominanti negli Stati Uniti giunsero a preconizzare il prossimo avvento di un nuovo secolo americano, contraddistinto dalla supremazia del campo occidentale e dalla centralità globale dell’area transatlantica. Negli ultimi anni queste previsioni sono state ampiamente ridimensionate dall’emersione di nuovi poli economici mondiali che, sfruttando le dinamiche del processo di globalizzazione economica, hanno potuto svilupparsi, creando potenti aree di mercato al di fuori dell’Occidente. In particolare, la Russia, la Cina, l’India e i Paesi dell’Asia Centrale sembrano aver costruito le fondamenta per la formazione di un nuovo ordine internazionale capace di riaffermare l’antico primato mondiale della Via della Seta, con conseguenze e implicazioni epocali per l’Europa.

Conferenza presso la sala del Sangallo Palace Hotel in Via Masi, 9 a Perugia.

Per l’occasione sarà presentato il nuovo numero di “Eurasia”, dedicato alla Cina.
Modera:
Andrea Fais (collaboratore del tabloid cinese “Global Times”).

Intervengono:
Claudio Mutti (direttore della rivista di studi geopolitici “Eurasia”).

Li Xiaoyong (direttore dell’Ufficio Stampa dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese).

Giovanni Pomponi (Console onorario del Kazakhstan in Umbria).

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